Il signor Kirwin mi guardò con una espressione preoccupata. Non poté fare a meno di considerare la mia esclamazione come una presunzione della mia colpevolezza, e disse, in tono piuttosto severo: «Io pensavo, giovanotto, che la presenza di vostro padre sarebbe stata benvenuta da voi anziché ispirarvi un disgusto così violento».

«Mio padre!», gridai, mentre ogni tratto e ogni muscolo del mio volto passavano dall'angoscia alla gioia. «È venuto davvero mio padre? Quanto è buono, quanto è buono! Ma dov'è? Perché non corre da me?»

Il mio cambio di modi sorprese e fece piacere al giudice; forse pensò che la mia precedente esclamazione era stata un ritorno di delirio, e così assunse di nuovo l'aria benevola di prima. Si alzò e lasciò la mia stanza con l'infermiera, e subito entrò mio padre.

Niente in quel momento mi avrebbe dato più conforto dell'arrivo di mio padre. Gli tesi la mano ed esclamai: «Stai bene dunque? Ed Elizabeth? Ed Ernest?».

Mio padre mi calmò rassicurandomi sulla loro salute, e cercò, indugiando su quegli argomenti che tanto avevo a cuore, di sollevare il mio morale abbattuto; subito, tuttavia, si rese conto che una prigione non poteva essere il luogo della serenità.

«In che razza di posto abiti, figlio mio!», disse, guardando con dolore le finestre con le inferriate e l'aspetto misero della mia stanza. «Viaggiavi per cercare la felicità, ma una fatalità sembra perseguitarti. E il povero Clerval...»

Il nome della mia sventura e del mio amico assassinato era un'angoscia troppo grande perché nel mio debole stato la sopportassi; scoppiai in lacrime.

«Ahimè! Sì, padre mio», risposi, «un terribile destino è sospeso su di me e io devo vivere per vederlo realizzato, o di certo sarei morto davanti alla bara di Henry.»

Non ci era permesso parlare a nostro piacimento, perché il mio stato precario di salute rendeva necessaria ogni precauzione per assicurarmi la tranquillità. Entrò il signor Kirwin e insistette perché la mia energia non si esaurisse in così tanti sforzi. Ma l'arrivo di mio padre per me fu come un angelo custode, e pian piano mi ripresi.

Appena la malattia mi lasciò, fui preso da una melanconia oscura e profonda che niente poteva dissipare. L'immagine spettrale di Clerval assassinato mi stava sempre davanti. Più di una volta l'ansia in cui questi pensieri mi gettavano fece temere ai miei amici una pericolosa ricaduta. Ahimè! Perché conservarono una vita così miserabile e detestata? Certo perché si potesse compiere il destino mio, che ora sta per giungere al termine. Presto, oh, molto presto, la morte estinguerà queste pulsazioni e mi solleverà dal peso possente dell'angoscia che mi tiene nella polvere e, nell'eseguire la sentenza della giustizia, io sprofonderò anche nel riposo. Allora l'immagine della morte era lontana, sebbene il desiderio fosse sempre nei miei pensieri; e spesso sedevo per ore, senza parlare e senza muovermi, desiderando che qualche possente catastrofe seppellisse me e il mio distruttore tra le sue rovine.

Il tempo delle Assise si avvicinava. Ero già stato in prigione tre mesi e, sebbene fossi ancora debole e in continuo pericolo di ricaduta, fui costretto a viaggiare almeno cento miglia fino alla città dove si teneva il processo. Il signor Kirwin adottò ogni cura per raccogliere le testimonianze e preparare la mia difesa. Mi fu risparmiata l'onta di apparire pubblicamente come un criminale, perché il caso non fu portato davanti alla Corte che decide sulla vita e sulla morte. Il Gran Giurì respinse l'accusa perché fu provato che, all'ora in cui il corpo del mio amico era stato ritrovato, io ero nelle Orcadi; e circa quindici giorni dopo il mio trasferimento fui liberato dalla prigione.

Mio padre fu felicissimo che fossi stato liberato dall'ingiustizia di una accusa criminale, che fossi di nuovo libero di respirare l'aria fresca e che mi fosse consentito di tornare al mio paese natio. Io non condividevo quei sentimenti, perché per me le mura di una prigione o quelle di un palazzo erano odiose allo stesso modo. La coppa della vita era stata avvelenata per sempre e, sebbene il sole splendesse su di me come su chi era felice e col cuore sereno, intorno a me non vedevo altro che un'oscurità densa e spaventosa, penetrata da nessun'altra luce eccetto lo sfavillio di due occhi che mi fissavano. Talvolta erano gli occhi espressivi di Henry, languenti nella morte, quegli occhi scuri quasi nascosti dalle palpebre e dalle lunghe ciglia; talvolta erano gli occhi umidi, velati, del mostro, così come li avevo visti la prima volta nella mia stanza di Ingolstadt.

Mio padre cercava di risvegliare in me sentimenti d'affetto. Parlava di Ginevra, dove presto sarei andato, di Elizabeth e di Ernest, ma queste parole riuscivano solo a strapparmi lamenti angosciosi. Talvolta, a dire il vero, sentivo un desiderio di felicità e pensavo con una delizia malinconica alla mia adorata cugina e mi struggevo, con una divorante maladie du pays dalla voglia di vedere ancora il lago azzurro e il rapido Rodano, che mi era stato tanto caro nella prima fanciullezza; ma lo stato consueto dei miei sentimenti era un torpore, in cui una prigione era una dimora tanto bene accetta quanto il più divino paesaggio naturale, e questi attacchi erano interrotti solo, talvolta, da stati parossistici di angoscia e disperazione. In quei momenti spesso cercavo di porre un termine all'esistenza che detestavo e ci voleva una assistenza e una vigilanza continua per trattenermi dal commettere qualche spaventoso atto di violenza.

Mi restava però ancora un dovere, il ricordo del quale trionfò alla fine sulla mia egoistica disperazione. Era necessario che ritornassi senza indugio a Ginevra, là, a proteggere le vite di coloro che amavo tanto; ad aspettare l'assassino, di modo che, se qualche caso mi avesse portato al suo nascondiglio o se avesse osato tormentarmi di nuovo con la sua presenza, avrei potuto, a colpo sicuro, porre fine all'esistenza di quell'immagine mostruosa che avevo dotato di un'anima contraffatta ancora più mostruosa. Mio padre voleva rimandare ancora la nostra partenza, nel timore che non riuscissi a sostenere le fatiche di un viaggio: e in effetti a dire il vero ero un rottame inutile, l'ombra di un essere umano. La mia forza se n'era andata. Ero ridotto a uno scheletro, e giorno e notte la febbre saccheggiava il mio corpo devastato.

Dato che però insistevo per lasciare l'Irlanda con tanta impazienza e inquietudine, mio padre pensò fosse meglio acconsentire. Ci imbarcammo su un vascello diretto a Havre-de-Grace e salpammo con un dolce vento dalle coste irlandesi.

Era mezzanotte. Ero sdraiato sul ponte a guardare le stelle e ad ascoltare il frangersi delle onde. Salutai l'oscurità che tolse l'Irlanda dalla mia vista, e il mio polso prese a battere di gioia febbrile quando pensai che presto avrei visto Ginevra. Il passato mi appariva sotto le spoglie di un sogno spaventoso, eppure il vascello su cui mi trovavo, il vento che mi allontanava dalle detestate coste irlandesi e il mare che mi circondava, mi dicevano troppo chiaramente che non ero stato ingannato da nessuna visione e che Clerval, il mio amico e il mio caro compagno, era caduto vittima mia e del mostro di mia creazione. Ripercorsi, nella memoria, la mia vita intera - la mia tranquilla gioventù con la famiglia a Ginevra, la morte di mia madre e la partenza per Ingolstadt. Ricordai, con un brivido, il folle entusiasmo che mi aveva spinto alla creazione del mio nemico orribile e richiamai alla memoria la notte in cui, per la prima volta, egli era venuto in vita. Non riuscivo a seguire il corso dei pensieri: mille sentimenti mi opprimevano, e piansi amaramente.

Da quando mi ero ripreso dalla febbre, mi ero abituato a prendere sempre, ogni notte, una piccola quantità di laudano, perché solo con quella droga riuscivo a ottenere il riposo necessario alla vita. Oppresso dal ricordo delle mie tante sventure, inghiottii il doppio della mia dose consueta, e mi addormentai subito profondamente. Ma il sonno non mi offrì tregua dai pensieri e dalla sofferenza. I miei sogni mi presentarono mille oggetti che mi spaventarono. Verso il mattino fui in preda a una specie di incubo; sentivo la presa del demone sul collo e non riuscivo a liberarmene; gemiti e urla mi rimbombavano nelle orecchie.

Mio padre, che vegliava su di me, si accorse della mia agitazione, e mi svegliò; intorno c'era lo sciabordio delle onde, sopra c'era il cielo nuvoloso, ma il demone non era lì: un senso di sicurezza, la sensazione che si fosse stabilita una tregua tra l'ora presente e il futuro, inevitabile e sinistro, mi dette quella specie di tranquillo oblio, al quale, per la sua struttura, la mente umana è tanto disposta.

 

Capitolo ventiduesimo

 

Il viaggio giunse al termine. Sbarcammo e proseguimmo per Parigi. Mi accorsi subito che avevo sopravvalutato la mia forza e che, per poter continuare il viaggio, dovevo riposare. Le cure e le attenzioni di mio padre furono instancabili, ma lui non conosceva le origini delle mie sofferenze e cercava rimedi errati per quel male incurabile. Voleva che cercassi svago nella compagnia. Io detestavo il volto degli uomini. Oh, non li detestavo! Erano i miei fratelli, i miei simili, e mi sentivo attratto anche dal più repellente fra loro come da una creatura di natura angelica e da un meccanismo celestiale. Ma sentivo di non avere alcun diritto di intrattenere rapporti con loro. Avevo liberato un nemico fra di loro, la cui gioia era versare il loro sangue e godere dei loro gemiti. Come mi avrebbero detestato e scacciato dal mondo tutti quanti, se avessero saputo dei miei atti sacrileghi e dei crimini, che in me avevano la loro sorgente!

Mio padre acconsentì infine al mio desiderio di evitare la compagnia e si sforzò, con vari argomenti, di scacciare la mia disperazione. Talvolta pensava che avessi accusato la degradazione di essere costretto a rispondere di omicidio, e si sforzava di mostrarmi quanto fosse futile l'orgoglio.

«Ahimè! Padre mio», dissi io, «quanto poco mi conosci. Gli esseri umani, i loro sentimenti e le loro passioni, sarebbero davvero ben poca cosa se un miserabile come me provasse orgoglio. Justine, la povera, infelice Justine, era innocente come me e ha sofferto la stessa accusa; lei ne è morta, e sono io la causa di ciò, io l'ho uccisa. William, Justine, Henry: sono tutti morti per mano mia.»

Mio padre mi aveva sentito spesso, durante la prigionia, fare le stesse asserzioni; quando mi accusavo a questo modo egli a volte sembrava desiderare una spiegazione, altre volte pensava che fosse il frutto del delirio e che durante la mia malattia qualche idea di questo tipo si fosse presentata alla mia immaginazione e il ricordo di essa si fosse conservato durante la convalescenza.

Io evitavo di dare spiegazioni e mantenevo un silenzio costante sul mostro che avevo creato. Ero convinto che sarei stato preso per matto, e questo era sufficiente a chiudermi per sempre la bocca. Ma non riuscivo comunque a svelare un segreto che avrebbe riempito di terrore chi mi ascoltava e avrebbe fatto della paura e dell'orrore gli unici ospiti del suo animo. Controllavo allora il mio impaziente bisogno di essere compreso, e stavo zitto, anche se avrei dato il mondo intero per confidare il segreto fatale. Tuttavia, parole come quelle che ho ricordato mi venivano fuori, incontrollabili. Non potevo spiegarle, ma la loro verità rivelava, in parte, il fardello del mio dolore misterioso.

In quell'occasione mio padre disse, con una espressione di infinita meraviglia: «Mio caro Victor, che fantasia è mai questa? Figlio mio caro, ti prego, non dire più una cosa del genere».

«Non sono pazzo», risposi con forza. «Il sole e il cielo, che hanno visto i miei atti, possono testimoniare che dico il vero; sono io l'assassino di quelle vittime innocenti, sono morte per le mie macchinazioni. Mille volte avrei versato il mio stesso sangue goccia a goccia, per salvare le loro vite; ma non potevo, davvero, non potevo sacrificare l'intera razza umana.»

La conclusione di questo discorso convinse mio padre che le mie idee erano confuse, e subito cambiò argomento, cercando di mutare la direzione dei miei pensieri. Desiderava, per quanto possibile, cancellarmi dalla memoria le scene che avevano avuto luogo in Irlanda e non vi alludeva mai, né mi faceva soffrire parlando delle mie disgrazie.

Col passare del tempo divenni più calmo; nel mio cuore dimorava l'infelicità, ma non parlavo più nello stesso modo incoerente dei miei stessi crimini; mi bastava la coscienza di essi. Con il più violento autocontrollo repressi la voce imperiosa della disperazione che qualche volta desiderava dichiararsi al mondo intero e i miei modi furono più calmi e più composti di quanto mai erano stati sin dal tempo del mio viaggio al mare del ghiaccio.

Qualche giorno prima che lasciassimo Parigi per la Svizzera, ricevetti la seguente lettera da Elizabeth:

 

Mio caro amico,

mi ha dato il più grande piacere ricevere una lettera di mio zìo da Parigi; non siete più a una distanza così formidabile, e posso sperare di vederti in meno di quindici giorni. Mio povero cugino, quanto devi aver sofferto! Mi aspetto di vederti con un aspetto anche peggiore di quello che avevi quando hai lasciato Ginevra. Questo inverno è passato nel modo più infelice, torturata com'ero da un'attesa ansiosa; ma spero di trovare la pace nel tuo volto e scoprire che il tuo cuore non è del tutto privo di conforto e di tranquillità.

Temo però che ci siano gli stessi sentimenti che un anno fa ti rendevano così infelice e che siano persino aumentati col tempo. Non vorrei disturbarti in questo periodo, quando così tante sofferenze ti pesano addosso, ma una conversazione che ho avuto con mio zio, prima della sua partenza, rende necessarie alcune spiegazioni prima che c'incontriamo.

«Spiegazioni!», potresti dire tu. «Cosa mai ha da spiegare Elizabeth?» Se lo dici davvero, le mie domande hanno già una risposta e tutti i miei dubbi sono soddisfatti; ma tu sei distante da me ed è possibile che tu tema e allo stesso tempo desideri questa mia spiegazione; e, nella possibilità che sia questo il caso, oso non procrastinare oltre di scrivere quello che, durante la tua assenza, ho desiderato spesso di esprimerti, senza avere mai il coraggio di cominciare.

Sai bene, Victor, che il nostro matrimonio è stato il progetto preferito dei nostri genitori sin dalla nostra infanzia. Ce l'hanno detto quando eravamo bambini e ci hanno insegnato a considerarlo un evento che sarebbe certamente avvenuto. Siamo stati compagni di gioco affettuosi durante la nostra infanzia e, credo, amici cari e di valore l'una per l'altro quando siamo cresciuti. Ma come i fratelli e le sorelle sentono un vivo affetto reciproco senza desiderare una più intima unione, non potrebbe essere così anche per noi? Dimmelo, diletto Victor, rispondimi, ti scongiuro, per la nostra comune felicità, la semplice verità - non ami un'altra?

Tu hai viaggiato; hai passato diversi mesi della tua vita a Ingolstadt; e ti confesso, mio caro, che quando ti ho visto così infelice, lo scorso autunno, che ti ritraevi da ogni compagnia per la solitudine, non potevo fare a meno di pensare che forse ti addoloravi del nostro legame e ti credevi legato nell'onore ad adempiere i desideri dei tuoi genitori, sebbene si opponessero ai tuoi. Ma questo è un modo falso di ragionare. Ti confesso, mio caro, che ti amo e che nei miei sogni gioiosi sul futuro sei stato sempre il mio amico e compagno. Ma è la tua felicità che io desidero quanto la mia, quando ti dichiaro che il nostro matrimonio mi renderebbe eternamente infelice a meno che non fosse dettato da una tua libera scelta. Anche ora piango se penso che, schiacciato come sei dalle più crudeli sofferenze, tu possa soffocare, con la parola «onore», tutte le speranze di quell'amore e quella felicità che sole ti restituiranno te stesso. Io, che ho per te un affetto così disinteressato, aumenterei le tue sofferenze decine di volte ponendomi come ostacolo ai tuoi desideri. Ah!, Victor, stai certo che la tua cugina, la tua compagna di giochi, nutre un amore troppo sincero per te per non rattristarsi di fronte a una idea del genere. Sii felice, amico mio e, se tu accondiscendi a questa mia sola richiesta, sta' certo che niente sulla terra avrà il potere di interrompere la mia tranquillità. Fa' che questa mia lettera non ti rechi fastidio; non rispondermi domani, e nemmeno il giorno dopo, e nemmeno fino al tuo arrivo, se questo ti dà dolore. Mio zio mi manderà novità sulla tua salute e se quando c'incontreremo io vedrò anche un solo sorriso sulle tue labbra, dovuto a questo o a qualche altro sforzo da parte mia, non desidererò altra felicità

 

Elizabeth Lavenza

Ginevra, 18 maggio 17-

 

Questa lettera mi ravvivò nella memoria ciò che avevo scordato, la minaccia del demone: «sarò con te nella tua notte di nozze!». Tale era la mia sentenza e in quella notte il demone avrebbe usato ogni arte per distruggermi e strapparmi dal barlume di felicità che prometteva un po' di consolazione per le mie sofferenze. Egli aveva deciso di celebrare i suoi crimini con la mia morte. Ebbene, che fosse così; sarebbe certo avvenuta una lotta mortale nella quale, se fosse uscito vittorioso lui io sarei stato in pace e il suo potere su di me sarebbe finito. Se fosse stato vinto, io sarei stato un uomo libero. Ahimè! Quale libertà? Quella di cui gode il contadino quando la sua famiglia è stata massacrata di fronte ai suoi occhi, la sua casa bruciata, le sue terre devastate e lui resta alla deriva, senza casa, senza un centesimo e solo, ma libero. Tale sarebbe stata la mia libertà, con la sola differenza che in Elizabeth io possedevo un tesoro; tesoro che tuttavia aveva per contraltare quegli orrori di rimorso e di colpevolezza che mi avrebbero perseguitato fino alla morte.

Dolce e amata Elizabeth! Lessi e rilessi la sua lettera, e qualche sentimento di serenità penetrò nel mio cuore e osò suggerire sogni paradisiaci di amore e di gioia; ma ormai la mela era stata mangiata, e il braccio dell'angelo era sguainato per allontanarmi da ogni speranza. Tuttavia sarei morto per renderla felice. Se il mostro portava in atto la sua minaccia la morte era inevitabile; mi chiesi però, se il mio matrimonio avrebbe affrettato il mio destino. La mia distruzione avrebbe potuto arrivare in effetti qualche mese prima, ma se il mio torturatore avesse sospettato che lo rimandavo sotto l'influenza delle sue minacce, avrebbe di certo trovato altri modi, forse più terribili, per vendicarsi.

Aveva fatto voto di essere con me nella mia notte di nozze,eppure non considerava quella minaccia come un armistizio temporaneo, dato che, per mostrarmi che ancora non si era saziato del sangue, aveva ucciso Clerval, subito dopo aver fatto la sua minaccia. Decisi pertanto che se un immediato matrimonio con mia cugina avrebbe fatto la gioia di lei o di mio padre, i disegni del mio avversario contro la mia vita non dovevano ritardarlo di una sola ora.

Con quest'abito mentale scrissi a Elizabeth. La mia lettera era calma e affettuosa.

«Temo, mia amata fanciulla», scrissi, «che ci resti poca felicità sulla terra; comunque tutta quella di cui forse un giorno godrò, è centrata su di te. Caccia le tue inutili paure; a te sola io consacro la mia vita e i miei tentativi di felicità. Ho un segreto, Elizabeth, un segreto terribile; quando ti sarà rivelato, ti farà raggelare di orrore e dopo, lungi dal sorprenderti per la mia infelicità, ti meraviglierai solo che sia sopravvissuto a ciò che ho sofferto. Ti confiderò questo racconto di terrore e di tormento il giorno dopo il nostro matrimonio, perché, mia dolce cugina, fra noi ci dovrà essere una confidenza totale. Ma, fino ad allora, ti supplico, non far menzione di ciò, non farvi allusioni. Di questo ti prego con franchezza, e sono certo che mi esaudirai.»

Dopo circa una settimana dall'arrivo della lettera di Elizabeth, facemmo ritorno a Ginevra. La dolce fanciulla mi ricevette con calore e affetto, eppure le lacrime le comparvero sugli occhi quando vide il mio corpo emaciato e le guance febbricitanti. Mi accorsi che anche in lei c'era stato un cambiamento. Era più magra e aveva perso molta di quella vivacità celestiale che un tempo mi aveva affascinato, ma la sua dolcezza e i suoi sguardi teneri di compassione facevano di lei una compagna più adatta a un uomo distrutto e miserabile come me.

La tranquillità di cui godevo non durò. La memoria portava con sé la follia, e quando pensavo a ciò che avevo passato, una vera alienazione prendeva possesso di me; talvolta ero furioso e bruciavo dalla rabbia, talvolta abbattuto e scoraggiato. Non parlavo e non guardavo nessuno, ma sedevo invece immobile, disorientato dalla moltitudine di sofferenze che mi sopraffaceva.

Solo Elizabeth aveva il potere di tirarmi fuori da questi attacchi; la sua voce gentile mi calmava quando ero in preda alla passione e mi ispirava sentimenti umani quando sprofondavo nel torpore. Piangeva per me e con me. Quando mi tornava la ragione mi rimproverava e cercava di ispirarmi la rassegnazione. Ah! È buona cosa per lo sfortunato rassegnarsi, ma per il colpevole non c'è pace. L'angoscia del rimorso avvelena il piacere, che altrimenti si proverebbe, in certi casi, abbandonandosi al dolore.

Subito dopo l'arrivo, mio padre mi parlò del mio immediato matrimonio con Elizabeth. Restai in silenzio.

«Allora hai qualche altro legame?»

«Nessuno in tutta la terra. Amo Elizabeth e attendo con gioia il nostro matrimonio. Si fissi il giorno; e da allora consacrerò me stesso, nella vita e nella morte, alla felicità di mia cugina.»

«Mio caro Victor, non parlare così. Gravi sventure ci sono cadute addosso, ma stringiamoci più forte a ciò che ci rimane e spostiamo il nostro amore per coloro che abbiamo perduto su quelli che ancora sono vivi. La nostra cerchia sarà piccola, ma saldamente legata dai vincoli dell'affetto e della sventura comune. E quando il tempo avrà raddolcito la tua disperazione, dei nuovi, cari oggetti di attenzione saranno nati, per prendere il posto di coloro che ci sono stati tolti in modo così crudele.»

Tali erano gli insegnamenti di mio padre. Ma mi tornava in mente la minaccia; né potete meravigliarvi che, onnipotente come era stato il demone fino ad allora nelle sue gesta sanguinarie, lo considerassi quasi invincibile, e che quando aveva pronunciato le parole «sarò con te nella tua notte di nozze», avessi ritenuto inevitabile il destino minacciato. La morte, tuttavia, non era un male per me, a paragone della perdita di Elizabeth, e pertanto, con il volto soddisfatto e persino sereno, mi misi d'accordo con mio padre che se mia cugina avesse acconsentito, la cerimonia avrebbe avuto luogo dopo dieci giorni; e mi figurai così di porre un sigillo sul mio destino.

Dio mio! Se per un istante avessi immaginato quali erano le intenzioni del mio infernale avversario, avrei piuttosto bandito me stesso dal paese natio e avrei vagato in esilio senza amici sulla terra, piuttosto che acconsentire a questo matrimonio infelice. Ma come se avesse avuto poteri magici, il mostro mi aveva reso cieco alle sue reali intenzioni; e, pensando che avesse preparato solo la mia morte, affrettavo in realtà quella di una vittima che mi era molto più cara.

Mentre il periodo fissato per il matrimonio si avvicinava, fosse per viltà o per un presagio, mi sentivo il cuore venir meno. Nascondevo però i miei sentimenti con un aspetto allegro che dava gioia e sorrisi al volto di mio padre, ma a stento ingannava l'occhio attento e più penetrante di Elizabeth. Lei attendeva il nostro matrimonio con una placida serenità, ma anche con quel po' di timore, impressole dalle passate disgrazie, che questa felicità, apparentemente certa e tangibile, si potesse dissipare presto in un sogno etereo, senza lasciare altra traccia che un rimpianto profondo e senza fine.

Si fecero i preparativi per l'avvenimento, si ricevettero le visite di congratulazione, e tutti avevano un aspetto ridente. Io per quanto potevo, rinchiudevo nel fondo del mio cuore l'inquietudine che mi lacerava, e prendevo parte, apparentemente interessato, ai progetti di mio padre, sebbene questi servissero solo ad adornare il palcoscenico della mia tragedia.

Grazie agli sforzi di mio padre, una parte dell'eredità di Elizabeth le era stata restituita dal governo austriaco. Le spettava un piccolo possedimento sulle rive del lago di Como. Si era d'accordo che subito dopo il nostro matrimonio saremmo andati a Villa Lavenza e avremmo trascorso i nostri primi giorni di felicità sulle sponde del bel lago presso il quale si trovava.

Nel frattempo presi ogni precauzione per difendermi nel caso il demonio mi avesse attaccato apertamente. Portavo sempre con me le pistole e un pugnale, ed ero sempre all'erta per prevenire agguati; in questo modo ottenni un po' di tranquillità. A dire il vero, mentre il momento si avvicinava, la minaccia mi sembrava più un'illusione, indegna di disturbare la mia pace, mentre la felicità che speravo dal mio matrimonio vestiva una più grande apparenza di certezza dato che il giorno fissato per la cerimonia si avvicinava, e io ne sentivo continuamente parlare come di un evento che nessun accidente possibile poteva impedire.

Elizabeth sembrava felice; il mio comportamento tranquillo contribuiva molto a calmare il suo animo. Tuttavia, il giorno che doveva realizzare i miei desideri e il mio destino, lei era malinconica, e un cattivo presentimento la pervase; forse pensava anche al terribile segreto che avevo promesso di rivelarle il giorno seguente. Mio padre, nel frattempo, era al colmo della gioia e, tutto preso dai preparativi, nella melanconia di sua nipote non vide altro che la titubanza della sposa.

Dopo che la cerimonia fu celebrata, molti si radunarono a casa di mio padre, ma si era rimasti d'accordo che Elizabeth e io avremmo iniziato il nostro viaggio per via d'acqua, dormendo quella notte a Evian e continuando il viaggio il giorno seguente. La giornata era limpida, il vento favorevole; tutto sorrideva al nostro imbarco nuziale.

Quelli furono gli ultimi momenti della mia vita in cui provai il sentimento della felicità. Ci spostavamo rapidi sull'acqua; il sole era caldo, ma eravamo protetti dai suoi raggi da una specie di baldacchino, mentre godevamo le bellezze del paesaggio: a momenti, su di un lato del lago, vedevamo il monte Saleve, le dolci pendici di Montalgre, e più lontano, ergendosi su tutti, il Monte Bianco e l'insieme dei monti nevosi che invano si sforzano di imitarlo; a momenti, costeggiando la riva opposta, vedevamo il possente Giura che, all'ambizioso che lascia il suo paese natio mostra il suo lato più cupo, e all'invasore che vuole renderlo schiavo oppone una barriera quasi insuperabile.

Presi la mano di Elizabeth. «Tu sei addolorata, amore mio. Ah! Se sapessi quello che ho sofferto e cosa forse mi serba il futuro, ti sforzeresti di farmi gustare la pace e la tregua, che la disperazione mi concede almeno in quest'unico giorno.»

«Sii felice, mio caro Victor», rispose Elizabeth; «non c'è niente, spero, che ti angoscia; e stai tranquillo che se anche il mio volto non sprizza di gioia, il mio cuore è felice. Qualcosa mi sussurra di non fare grande affidamento sulla prospettiva che ci si è aperta davanti, ma non ascolterò una voce così sinistra. Guarda come ci muoviamo rapidi e come le nuvole, che ora oscurano e ora si alzano dalla cupola del Monte Bianco, rendono ancora più interessante questa scena magnifica. Guarda anche quanti pesci nuotano nell'acqua limpida, dove si può distinguere ogni sasso che giace sul fondo. Che giornata divina! Come sembra felice e serena tutta la natura!»

Così Elizabeth cercava di allontanare i suoi pensieri e i miei da ogni riflessione malinconica. Ma il suo spirito era incostante; la gioia per qualche istante brillava nei suoi occhi, ma lasciava sempre il posto a un'aria distratta e trasognata.

Il sole si abbassava nel cielo: oltrepassammo il fiume Drance e osservammo il suo percorso, lungo gli abissi delle colline più alte e tra i pendii di quelle più basse. Le Alpi qui sono prossime al lago, e noi ci avvicinavamo all'anfiteatro di montagne che segnano il suo limite orientale. Il campanile di Evian spiccava tra i boschi che lo circondavano e tra il susseguirsi di montagne che lo sovrastavano.

Il vento, che fino ad allora ci aveva sospinti con rapidità sorprendente, al tramonto divenne una leggera brezza; il soffio lieve increspava appena la superficie dell'acqua e causava un gradevole movimento tra gli alberi mentre ci avvicinavamo alla riva, dalla quale si diffondeva il più delizioso odore di fiori e di fieno. Come noi sbarcammo, il sole calò dietro l'orizzonte e, appena toccai la riva, sentii farsi vive di nuovo quelle preoccupazioni e quelle paure, che dovevano presto afferrarmi e restarmi avvinghiate per sempre.

 

Capitolo ventitreesimo

 

Quando prendemmo terra erano le otto; camminammo per un po' lungo la riva, godendo di quel poco di luce che restava, e poi ci ritirammo nella locanda, a contemplare la piacevole scena delle acque, delle montagne e delle foreste, oscurate dalle tenebre, ma ancora delineate nei loro scuri contorni.

Il vento, che era calato dal meridione, ora si alzava con grande violenza da occidente. La luna aveva raggiunto lo zenit nel cielo, e stava cominciando a calare. Le nuvole la attraversavano più rapide del volo dell'avvoltoio e ne offuscavano i raggi, mentre il lago rifletteva la scena di quel cielo tumultuoso e lo rendeva ancora più agitato, con le onde implacabili che cominciavano a gonfiarsi. A un tratto uno scroscio di pioggia cominciò a cadere.

Ero stato tranquillo durante la giornata, ma non appena la notte oscurò le forme degli oggetti, mille paure si levarono nella mia mente. Ero inquieto e guardingo, mentre la mia destra stringeva una pistola che avevo nascosto nel petto; ogni suono mi terrorizzava, ma decisi che avrei venduto a caro prezzo la vita e che non sarei indietreggiato dalla lotta fino all'estinzione della mia stessa vita o di quella del mio nemico.

Elizabeth per un po' osservò la mia agitazione in un silenzio timido e timoroso, ma c'era qualcosa nel mio sguardo che le comunicava orrore, e, tremando, mi chiese: «Cos'è che ti turba, mio caro Victor? Qual è la tua paura?».

«Oh! Taci, amore mio, taci», risposi, «ancora questa notte, e saremo tutti in salvo; ma questa notte è terribile, è terribile.»

Trascorsi un'ora in questo stato mentale, quando improvvisamente pensai quanto sarebbe stata spaventosa, per mia moglie, la lotta che da un momento all'altro mi aspettavo, e la pregai con fermezza di ritirarsi, deciso a non raggiungerla finché non avessi saputo qualcosa sul mio avversario.

Lei mi lasciò e continuai per un po' a camminare in su e in giù per i corridoi della casa, ispezionando ogni angolo che potesse fornire un rifugio al mio nemico. Ma non scoprii traccia di lui, e stavo cominciando a pensare che qualche caso fortunato gli avesse impedito di portare in atto le sue minacce quando, d'un tratto, sentii un urlo penetrante e terribile. Veniva dalla stanza in cui si era ritirata Elizabeth. Come l'udii, tutta la verità mi si fece chiara all'improvviso in mente, mi sentii cadere le braccia, il movimento di ogni muscolo e di ogni fibra si era come sospeso; potevo sentire il sangue stillare nelle vene e il formicolare nelle estremità delle membra. Questo stato non durò che un istante; si sentì un secondo urlo e mi precipitai nella stanza.

Dio mio! Perché non morii? Perché sono qui a raccontare la distruzione della migliore speranza e della più pura creatura della terra? Era là, inanimata, senza vita, gettata di traverso sul letto, con la testa penzolante in giù e i tratti del volto, distorti e pallidi, per metà ricoperti dai capelli. Ovunque mi volga vedo la stessa figura: le sue braccia esangui e la sua forma abbandonata, lasciata lì dall'assassino sulla sua bara nuziale. Potevo vedere questo e vivere? Ahimè! La vita è ostinata e si abbarbica più stretta quanto più è odiata. Persi la coscienza solo per un istante. Caddi a terra privo di sensi.

Quando mi ripresi mi trovai circondato dalla gente della locanda; i loro volti esprimevano un muto terrore, ma l'orrore degli altri mi sembrò solo una parodia, un'ombra dei sentimenti che mi opprimevano. Fuggii da loro fino nella stanza dove giaceva il corpo di Elizabeth, il mio amore, mia moglie, che poco prima era ancora viva, così cara, così unica. L'avevano spostata dalla posizione in cui l'avevo vista la prima volta, e ora, mentre lei giaceva, con la testa sul braccio e un fazzoletto gettato sul volto e sul collo, mi pareva quasi che dormisse. Mi gettai su di lei e l'abbracciai con ardore, ma il languore della morte e la freddezza delle membra mi dicevano che quella che reggevo tra le braccia aveva cessato di essere l'Elizabeth che avevo amato e adorato. I segni assassini della presa del demonio le stavano sul collo, e il respiro non le usciva più dalle labbra.

Mentre ero sempre chino su di lei, nell'angoscia della disperazione, mi capitò di alzare gli occhi. Le finestre della stanza erano state oscurate, prima, e provai una sorta di panico quando vidi la pallida luce giallastra della luna illuminare la camera. Le imposte erano state aperte e, con un senso di orrore indescrivibile, vidi alla finestra aperta la più orrenda e detestata figura. C'era un ghigno sulla faccia del mostro. Sembrava irridermi, mentre con quel dito diabolico indicava il corpo di mia moglie. Mi gettai verso la finestra, ed estratta la pistola, feci fuoco; ma mi sfuggì e, abbandonata quella posizione, correndo con la velocità del lampo si tuffò nel lago.

Il rumore della pistola riempì la stanza di gente. Indicai il luogo dov'era scomparso, e seguimmo le sue tracce con le barche; furono gettate delle reti, ma fu inutile. Dopo aver passato diverse ore così, tornammo senza speranza, mentre la maggior parte dei miei compagni si era convinta che fosse stato solo un parto della mia fantasia. Dopo aver preso terra, si dettero alla ricerca per le campagne, divisi in gruppi che andavano in diverse direzioni, tra i boschi e le vigne.

Mi sforzai di accompagnarli e mi allontanai un po' dalla casa, ma mi girava la testa, i miei passi erano come quelli di un ubriaco, e caddi infine in uno stato di completo sfinimento; un velo mi coprì gli occhi e la mia pelle prese a bruciare di febbre. In questo stato fui riportato indietro e messo a letto, a malapena conscio di ciò che stava avvenendo; i miei occhi vagavano per la camera come se cercassi qualcosa che avevo perduto.

Dopo un po' mi alzai e, come per istinto, mi trascinai nella stanza dove giaceva il corpo della mia diletta. Tutt'intorno c'erano donne che piangevano; mi piegai su di esso e aggiunsi le mie tristi lacrime alle loro; per tutto questo tempo non mi si presentò alla mente nessuna idea precisa; i miei pensieri vagavano invece su tanti argomenti, riflettendo confusamente sulle mie disgrazie e sulle loro cause. Ero frastornato da una nuvola di orrore e di meraviglia. La morte di William, l'esecuzione di Justine, l'assassinio di Clerval e infine quello di mia moglie; anche in quel momento non sapevo se i miei cari rimasti erano al sicuro dalla malvagità del demone; forse mio padre in quel momento si stava contorcendo sotto la sua presa, ed Ernest era morto ai suoi piedi. Quest'idea mi fece rabbrividire, e mi richiamò all'azione. Balzai in piedi e decisi di tornare a Ginevra alla massima velocità possibile.

Non era possibile procurarsi cavalli, e dovetti viaggiare sul lago; ma il vento non era favorevole, e la pioggia scendeva giù a torrenti. Comunque era quasi mattina e io potevo sperare di arrivare per la notte. Avevo ingaggiato uomini per remare e presi io stesso un remo, perché avevo sempre trovato sollievo dal tormento mentale nell'esercizio fisico. Ma il vero torrente d'infelicità che sentivo adesso e l'estrema agitazione che avevo provato, mi rendevano incapace di ogni movimento. Lasciai cadere il remo e, prendendomi la testa tra le mani, detti sfogo alle idee più terribili che mi venivano.

Se alzavo lo sguardo vedevo scene che mi erano state familiari nei tempi più felici e che avevo contemplato, solo il giorno prima, in compagnia di colei che adesso era solo un'ombra e un ricordo. Le lacrime mi uscivano dagli occhi. La pioggia era cessata per un istante e vedevo i pesci che si agitavano nell'acqua come avevano fatto poche ore prima; allora li aveva osservati Elizabeth. Niente per la mente umana è più doloroso di un cambiamento grande e improvviso. Il sole poteva splendere, le nuvole potevano abbassarsi, ma niente mi poteva apparire come il giorno prima. Un demone mi aveva strappato ogni speranza di felicità futura: nessuna creatura era stata così miserabile come me, e un evento così spaventoso è unico nella storia dell'uomo.

Ma perché indugiare sugli avvenimenti che seguirono quell'ultimo evento schiacciante? La mia è stata una storia di orrori; ho raggiunto adesso il loro apice, e ciò che devo raccontare ora potrebbe annoiarvi. Sappiate che, uno dopo l'altro, i miei cari mi furono strappati; fui lasciato solo. La mia stessa forza si è esaurita e vi dirò, in poche parole, ciò che resta del mio orrendo racconto.

Arrivai a Ginevra. Mio padre ed Ernest erano ancora vivi, ma il primo non resse alle notizie che portai. Lo vedo ancora: straordinario, venerabile vecchio! I suoi occhi vagavano nel vuoto, perché avevano perso colei che li attraeva e li allietava: la sua Elizabeth, più che una figlia per lui, alla quale si era dedicato con tutto quell'amore che sente un uomo quando, nel declino della vita, avendo pochi affetti, si stringe più forte a quelli che gli restano. Maledetto, sia maledetto il demone che ha portato la sofferenza sulla sua canizie e l'ha costretto a lacerarsi nella disperazione! Egli non riuscì a vivere sotto gli orrori che gli si erano accumulati attorno: la sorgente della vita a un tratto venne meno; non fu capace di alzarsi dal suo letto e, in pochi giorni, morì tra le mie braccia.

Che avvenne poi di me? Non lo so; persi ogni sensazione, gli unici oggetti che mi premevano intorno erano le catene e l'oscurità. Talvolta, a dire il vero, sognavo di andare a spasso per prati fioriti e dolci vallate con gli amici della mia gioventù, ma mi svegliavo e mi ritrovavo in una prigione. Seguiva la melanconia, ma per gradi ottenni una chiara percezione della mia sofferenza e della mia situazione, e fui così rilasciato dalla mia prigione. Perché ero stato dichiarato pazzo, e per molti mesi come compresi poi, la mia abitazione era stata una solitaria cella.

La libertà, comunque, sarebbe stata un regalo inutile per me se, una volta risvegliata la ragione, non si fosse risvegliata anche la sete di vendetta. Dato che la memoria delle mie passate sventure mi opprimeva, iniziai a riflettere sulla loro causa: il mostro che avevo creato, il miserabile demonio che avevo mandato in giro per il mondo perché mi distruggesse. Ero in preda a una rabbia folle quando pensavo a lui e desideravo, e pregavo ardentemente, di poterlo avere tra le mani per sfogare sulla sua testa maledetta una vendetta grande ed esemplare.

Né il mio odio voleva limitarsi a inutili desideri. Iniziai a riflettere sui modi migliori per prenderlo, e per questo, circa un mese dopo essere stato rilasciato, mi rivolsi a un giudice penale della città: gli dissi che avevo un'accusa da fare, che sapevo chi aveva distrutto la mia famiglia e gli chiesi di usare tutta la sua autorità per la cattura dell'assassino.

Il giudice mi ascoltò con attenzione e gentilezza.

«State sicuro, signore», disse, «che non risparmierò né atti né progetti per catturare il delinquente.»

«Vi ringrazio», risposi io. «Ascoltate, dunque, la deposizione che devo fare. È in verità un racconto così strano che avrei paura di non essere creduto se la verità non fosse tale da convincere per forza, per quanto possa essere straordinaria. La storia ha troppe connessioni con le mie sventure per essere un sogno, e non ho ragioni per mentire.»

L'atteggiamento con cui mi rivolsi a lui era impressionante, ma tranquillo; avevo deciso, nel fondo del cuore, di ottenere la morte del mio persecutore, e questo obiettivo acquietò la mia angoscia e per un po' mi riconciliò con la vita. Raccontai così la mia storia brevemente, ma con fermezza e precisione, fornendo le date con accuratezza e senza mai divagare in invettive e in esclamazioni.

Il giudice sembrò dapprima del tutto incredulo ma, come andavo avanti, si fece più attento e interessato; lo vidi talvolta rabbrividire di orrore, mentre in altri casi una viva sorpresa, senza traccia di incredulità alcuna, gli si diffondeva in volto.

Dopo che ebbi concluso la mia narrazione dissi: «Questo è l'essere che accuso e per la cui cattura e punizione vi chiedo di esercitare tutto il vostro potere. È il vostro dovere di magistrato, e credo e spero che i vostri sentimenti di uomo non rifiutino in questo caso l'esercizio di quelle funzioni».

Questo discorso ebbe per effetto un notevole cambiamento nell'espressione del mio ascoltatore. Aveva ascoltato la mia storia con quella sorta di credito che si dà a un racconto di spiriti e di eventi soprannaturali ma, quando fu chiamato ad agire ufficialmente in conseguenza, gli tornò tutta l'incredulità. In ogni caso rispose gentilmente:

«Vorrei tanto offrirvi ogni aiuto nella vostra ricerca, ma la creatura di cui parlate sembra avere delle capacità che renderebbero inutile ogni mio tentativo. Chi può seguire un animale che è in grado di attraversare il mare di ghiaccio e abitare caverne in cui nessun uomo si arrischierebbe a entrare? Inoltre sono passati diversi mesi dai suoi crimini e nessuno può immaginare in quale posto sia andato o in quale regione possa abitare adesso».

«Non dubito che si aggiri intorno al luogo dove abito io, e se ha davvero trovato rifugio sulle Alpi, lo si può cacciare come il camoscio e uccidere come un animale da preda. Ma comprendo i vostri pensieri; voi non credete al mio racconto e non intendete dare la caccia al mio nemico per dargli la punizione che si merita.»

Mentre parlavo, la rabbia sfavillava dai miei occhi; il giudice ne rimase intimorito.

«Vi sbagliate», disse. «Io mi darò da fare, e se è in mio potere catturare il mostro, state tranquillo che soffrirà pene proporzionate ai suoi crimini. Temo tuttavia, date le caratteristiche che avete descritto, che questo sia impossibile; e così, per quanto si prenda ogni misura necessaria, penso che dovreste prepararvi a una delusione.»

«Ciò non può essere; ma tutto quel che posso dire io servirà a poco. La mia vendetta non vi interessa; eppure, per quanto io sia d'accordo che è male, confesso che è la sola, divorante passione del mio spirito. La mia rabbia è inesprimibile, quando penso che l'assassino che io ho messo al mondo, esiste ancora. Voi vi negate alla mia giusta richiesta, e allora non ho che una risorsa: mi dedicherò per la vita e la morte, alla sua distruzione.»

Tremavo in preda a un attacco di ansia, mentre parlavo così; c'era una frenesia nei miei modi, e anche - sono certo - qualcosa di quella fierezza arrogante che si dice avessero i martiri dell'antichità. Ma per un magistrato ginevrino, la cui mente era presa da ben altre idee che quelle della devozione o dell'eroismo, quella elevazione dello spirito aveva piuttosto l'aspetto della follia. Egli cercò di calmarmi così come fa l'infermiera con un bambino e ripensò al mio racconto come a un effetto del delirio.

«Uomo», urlai io, «quanto sei stolto nella tua presunzione orgogliosa di saggezza! Taci; tu non sai di cosa parli!»

Lasciai quindi in fretta quella casa, urtato e infuriato, e mi ritirai a meditare su qualche altra prospettiva d'azione.

 

Capitolo ventiquattresimo

 

Il mio stato era di quelli in cui ogni pensiero volontario era soppresso e perduto. Ero sospinto dalla furia; solo la vendetta mi dava la forza e la calma, forgiava i miei sentimenti, e mi consentiva di essere freddo e calcolatore in momenti in cui, senza di lei, il delirio o la morte sarebbero stati il mio destino.

La mia prima decisione fu di lasciare Ginevra per sempre; il mio paese, che quando ero felice e amato mi era caro, ora, nelle avversità, mi era venuto in odio. Presi una somma di denaro, assieme a un po' di gioielli che erano stati di mia madre, e partii.

Così ebbe inizio il mio girovagare che cesserà soltanto con la morte. Ho attraversato un'ampia porzione della terra e ho sopportato tutte le privazioni che i viaggiatori nei deserti e nei paesi barbari devono incontrare. Come sono sopravvissuto non lo so; molte volte ho sdraiato il mio corpo martoriato su una distesa di sabbia e ho agognato la morte. Ma la vendetta mi teneva in vita; non osavo morire e lasciare il mio avversario in vita.

Quando lasciai Ginevra, il mio primo pensiero fu di trovare qualche indicazione per seguire le tracce del mio diabolico avversario. Ma non avevo dei piani precisi, e vagai per molte ore intorno ai confini della città, incerto su quale cammino prendere. Quando si avvicinò la notte, mi ritrovai all'ingresso del cimitero dove riposavano William, Elizabeth e mio padre. Entrai e mi avvicinai alla lapide che indicava i loro sepolcri. Tutto era silenzio, eccetto le foglie degli alberi, che erano appena smosse dal vento; la notte era quasi completamente buia e la scena sarebbe stata solenne e toccante anche per un osservatore disinteressato. Gli spiriti dei morti sembravano aleggiare là intorno e gettare un'ombra, che si sentiva, ma non si vedeva, intorno alla testa di chi li piangeva.

Il profondo dolore che dapprima quella scena mi aveva suscitato, lasciò presto luogo alla rabbia e alla disperazione. Erano morti, e io vivevo; e anche il loro assassino era vivo e, per distruggerlo, dovevo trascinare la mia stanca esistenza. Mi inginocchiai sull'erba, baciai la terra e con le labbra frementi esclamai:

«Sulla sacra terra su cui mi inginocchio, sulle ombre che vagano intorno a me, sul profondo ed eterno dolore che sento, e su te, Notte, e sugli spiriti che vivono in te, io giuro di perseguitare il demonio che ha causato questa sofferenza fino a quando o io o lui periremo in una lotta mortale. Per questo preserverò la mia vita; per eseguire questa dolce vendetta guarderò di nuovo il sole e camminerò per la terra verdeggiante, che altrimenti scomparirebbero per sempre agli occhi miei. E faccio appello a voi, spiriti dei morti e a voi, ministri vaganti della vendetta, perché mi aiutiate e mi siate di guida nel mio compito. Che il maledetto mostro infernale cada preda dell'angoscia più profonda: che egli provi il dolore che ora tormenta me».

Avevo dato inizio al mio giuramento con una solennità e un timore che mi rendeva quasi certo che le ombre dei miei cari assassinati avessero udito e approvato la mia devozione, ma le furie presero possesso di me mentre concludevo e la rabbia soffocò le mie parole.

Dal silenzio della notte ebbi come risposta una risata forte e demoniaca. Mi risuonò a lungo e con forza negli orecchi: le montagne ne rimandarono l'eco e mi sembrò come se tutto l'inferno mi circondasse di risate e di scherno. Di certo in quel momento avrei distrutto la mia miserabile esistenza, ma il mio voto era stato udito e io ero destinato alla vendetta. La risata quindi svanì, e allora una voce detestata e conosciuta mi si rivolse in un sussurro appena udibile, apparentemente vicino al mio orecchio: «Sono soddisfatto, miserabile disgraziato! Hai deciso di vivere, e io sono soddisfatto».

Mi lanciai verso il luogo da cui proveniva il suono, ma il demone sfuggì alla mia presa. Improvvisamente il largo disco della luna si levò e illuminò appieno la figura spettrale e sgraziata che fuggiva con una velocità sovrumana.

Lo inseguii, e per molti mesi questo è stato il mio dovere. Guidato da una vaga traccia lo seguii tra le anse del Rodano, ma invano. Apparve l'azzurro del Mediterraneo, e per uno strano caso vidi il demone entrare di notte e nascondersi in un vascello diretto al Mar Nero. Trovai posto sullo stesso vascello, ma lui riuscì a fuggire, non so come.

In mezzo alle distese tartare e russe, sebbene sempre mi sfuggisse, ho continuato a seguire le sue tracce. Talvolta i contadini, terrorizzati da quell'orrenda apparizione, mi informavano del suo cammino; talvolta lui stesso mi lasciava qualche indicazione per guidarmi, perché temeva che se avessi perso le sue tracce mi sarei lasciato andare e sarei morto. La neve mi scendeva sulla testa, e vedevo le impronte del suo passo enorme sulla distesa bianca. Voi che entrate adesso nella vita e a cui la preoccupazione è nuova e l'angoscia ignota, come potete comprendere ciò che sentivo e che ancora provo? Freddo, bisogno e fatica erano i dolori minori che ero destinato a sopportare; io ero maledetto da qualche demonio e portavo con me il mio perpetuo inferno; eppure, uno spirito benigno mi seguiva e dirigeva i miei passi e, quando gemevo, mi tirava fuori da difficoltà che parevano insormontabili. Talvolta, quando le mie membra, vinte dalla fame, sprofondavano nello sfinimento, trovavo nel deserto un pasto che mi rinfrancava e mi sollevava l'animo. Il cibo era, a dire il vero, grossolano, come quello dei contadini di quei paesi, ma non dubitavo che fosse stato posto là dagli spiriti che avevo invocato perché mi aiutassero. Spesso, quando tutto era arido, il cielo senza nubi, e io bruciavo dalla sete, una nuvola leggera velava il cielo, lasciava cadere qualche goccia che mi riportava in vita e poi svaniva.

Seguivo, quando potevo, il corso dei fiumi; ma in genere il demonio li evitava, perché è soprattutto lì che si addensa la popolazione, in quei paesi. In altri luoghi solo di rado si vedevano esseri umani e di solito mi cibavo degli animali selvatici che attraversavano il mio cammino. Avevo denaro con me e, distribuendolo, ottenevo l'amicizia degli abitanti dei villaggi; oppure portavo con me degli animali che avevo ucciso e che, dopo averne preso una piccola porzione, sempre offrivo a coloro che mi avevano dato il fuoco e gli utensili per cucinare.

La vita, trascorsa così, mi era odiosa ed era solo durante il sonno che potevo gustare la gioia. Oh, sonno benedetto! Spesso, quando soffrivo di più, mi addormentavo, e i miei sogni mi cullavano fino all'estasi. Gli spiriti che mi proteggevano mi avevano assicurato questi momenti, o piuttosto queste ore di felicità perché mantenessi la forza per compiere il mio viaggio. Privato di queste tregue, sarei crollato sotto le difficoltà. Durante il giorno ero sostenuto e incoraggiato dall'attesa della notte, perché in sogno vedevo i miei cari, mia moglie e il mio amato paese; di nuovo vedevo il volto benevolo di mio padre, ascoltavo i toni argentini della voce di Elizabeth e vedevo Clerval nel pieno della salute e della giovinezza. Spesso, quando ero affaticato da una marcia penosa, mi persuadevo che stavo sognando, e che solo quando fosse venuta la notte avrei potuto godere della realtà, tra le braccia dei miei amati cari. Che amore angoscioso sentivo per loro! Come mi tenevo strette le loro care forme, che talvolta mi frequentavano persino nelle ore di veglia, e come mi persuadevo che erano ancora vivi! In quei momenti la vendetta, che mi bruciava dentro, mi moriva in cuore, e continuavo il mio cammino verso la distruzione del demonio più come un dovere assegnatomi dal cielo, come l'impulso meccanico di qualche potere di cui ero inconscio, che come un ardente desiderio del mio spirito.

Quali fossero i suoi sentimenti mentre lo inseguivo, non posso saperlo. Talvolta, a dire il vero, lasciava dei segni, scritti sulla corteccia degli alberi, o incisi nella pietra, che mi guidavano e aumentavano la mia furia.

«Il mio regno non è ancora finito», queste parole si potevano leggere in una di quelle iscrizioni, «tu vivi e il mio potere è completo. Seguimi; mi dirigerò verso i ghiacci eterni del nord ove sentirai la sofferenza del freddo e del gelo, alle quali io sono immune. Troverai, qua intorno, se non mi segui con troppo ritardo, una lepre morta: mangiala e ritrova le forze. Vieni, nemico mio, dobbiamo ancora lottare per le nostre vite, ma molte ore dure e tormentose devi sopportare prima che arrivi quel momento.»

Demone beffardo! Di nuovo mi votavo alla vendetta; di nuovo ti giuravo, miserabile demone, morte e tortura. Mai abbandonerò la mia ricerca finché o io o lui moriremo; e allora sarà con estasi che raggiungerò la mia Elizabeth e i miei cari defunti, che sin da ora si preparano a ringraziarmi per la mia logorante fatica e per il mio viaggio orribile!

Mentre continuavo il mio cammino verso nord, la neve era caduta e il freddo si era fatto tanto rigido da essere quasi insopportabile. I contadini stavano rinchiusi nelle loro capanne, e solo alcuni dei più coraggiosi si avventuravano all'esterno per catturare gli animali che la fame aveva obbligato a uscire dalle loro tane in cerca di preda. I fiumi erano coperti di ghiaccio e non c'era modo di procurarsi pesci; e così ero tagliato fuori dal mio primo mezzo di sostentamento.

Il sentimento di trionfo del mio nemico aumentava con la durezza delle mie fatiche. Un'iscrizione che aveva lasciato suonava in questi termini: «Preparati! I tuoi travagli sono solo all'inizio; ricopriti di pellicce e fai provvista di cibo, perché presto inizieremo un viaggio in cui le tue sofferenze soddisferanno il mio odio infinito».

Il mio coraggio e la mia perseveranza traevano nuovo vigore da quelle parole di irrisione; decisi così di non fallire l'obiettivo e, chiamando il cielo in mio aiuto, continuai con passione costante ad attraversare immensi deserti finché, lontano, apparve l'oceano a formare il limite estremo dell'orizzonte. Oh! Come era diverso dagli azzurri mari meridionali! Ricoperto di ghiaccio, si distingueva dalla terra solo perché era più desolato e irregolare. I Greci piansero dalla gioia vedendo il Mediterraneo dalle colline dell'Asia e salutarono rapiti la conclusione del loro travaglio. Io non piansi, ma mi inginocchiai e con il cuore gonfio ringraziai il mio spirito guida per avermi condotto salvo al luogo dove speravo - nonostante le beffe del mio avversario - di incontrarlo e di venire alle prese con lui.

Qualche settimana prima mi ero procurato una slitta e dei cani, e così avevo attraversato le nevi con un velocità straordinaria. Non sapevo se il demone disponesse degli stessi vantaggi, ma mi accorsi che, mentre prima perdevo terreno ogni giorno, adesso guadagnavo su di lui tanto che, quando vidi l'oceano, aveva un solo giorno di vantaggio e sperai di raggiungerlo prima che arrivasse alla riva. Con rinnovato coraggio, dunque, continuai, e in due giorni arrivai a un misero villaggio sulla costa.

Chiesi del demone agli abitanti, e ottenni delle informazioni dettagliate. Un mostro gigantesco, dissero, era giunto la notte prima, armato di fucile e di molte pistole, e aveva messo in fuga gli occupanti di un casolare solitario spaventandoli col suo aspetto terribile. Si era preso le loro scorte di cibo per l'inverno, e, piazzatele in una slitta, per tirare la quale aveva rubato una muta di molti cani addestrati, li aveva legati lì e la stessa notte, tra la gioia degli abitanti inorriditi, aveva spinto il suo cammino attraverso il mare, in una direzione che non portava a nessuna terra; e loro supponevano che sarebbe stato rapidamente annientato dalla rottura del ghiaccio, o congelato dai ghiacci eterni.

A sentire queste informazioni, lì per lì fui preso da un attacco di disperazione. Mi era scappato e dovevo iniziare un viaggio distruttivo e quasi senza fine attraverso i ghiacci dell'oceano con un freddo che pochi degli abitanti erano in grado di sopportare a lungo e al quale io, nato in un clima gentile e soleggiato, non potevo sperare di sopravvivere. Ma all'idea che il demone dovesse vivere e trionfare, la mia rabbia e la mia vendetta tornavano e, come una possente marea, sopraffacevano tutti gli altri sentimenti. Dopo un breve riposo, durante il quale gli spiriti dei morti mi aleggiarono intorno e mi istigarono all'impresa e alla vendetta, mi preparai per il viaggio.

Scambiai la mia slitta da terra con una adatta alle asperità dell'oceano ghiacciato e, acquistata una completa riserva di viveri, lasciai la terraferma.

Non posso dire quanti giorni siano passati da allora, ma ho sopportato una sofferenza che niente mi avrebbe reso capace di sostenere, se non quel sentimento immortale di una giusta ricompensa che mi bruciava dentro. Montagne di ghiaccio immense e impervie spesso mi sbarravano la strada e sovente sentivo il rumoreggiare del mare sottostante, che minacciava d'annientarmi. Ma il gelo tornava di nuovo e rendeva sicuro il cammino sul mare.

Dalla quantità di provviste che avevo consumato suppongo di aver trascorso tre settimane in questo viaggio, e il continuo protrarre la speranza, che mi ricadeva sempre sul cuore, spesso mi strappava dagli occhi lacrime amare di scoraggiamento e di dolore. In verità ero quasi in preda alla disperazione e presto sarei crollato sotto quel tormento.

Un giorno, dopo che i poveri animali che mi trainavano erano riusciti a salire in cima a una scoscesa montagna di ghiaccio, e uno, sfibrato dalla sofferenza, era morto, io stavo osservando la distesa di fronte a me in preda all'angoscia, quando all'improvviso la vista si imbatté in una chiazza scura sulla tetra distesa. Strinsi gli occhi per scoprire cosa potesse essere ed emisi un urlo selvaggio di trionfo quando distinsi una slitta e le proporzioni sgraziate di una forma conosciuta al suo interno. Oh! Che fiotto di ardente speranza visitò di nuovo il mio cuore! Gli occhi mi si riempirono di lacrime calde, che rapidamente asciugai, perché non si frapponessero alla vista del demone, ma altre lacrime brucianti mi offuscarono lo sguardo, fino a che, dando libero sfogo alle emozioni che mi opprimevano, piansi a dirotto.

Tuttavia non c'era tempo da perdere; liberai i cani dal loro compagno morto, detti loro una ricca porzione di cibo e, dopo un'ora di riposo, che era assolutamente necessaria, ma che per me fu tuttavia amara e molesta, continuai per la mia pista. La slitta era ancora visibile né io la persi di vista, a eccezione dei momenti in cui, per breve tempo, qualche blocco di ghiaccio la nascondeva con i suoi balzi. Anzi, guadagnavo sensibilmente terreno su di essa e, dopo quasi due giorni di viaggio, quando vidi il mio nemico a non più di un miglio di distanza, il cuore mi sobbalzò nel petto.

Ma proprio allora, quando ero ormai a portata di mano del mio avversario, le mie speranze furono improvvisamente annientate, e persi di lui ogni traccia, peggio di quanto mai mi fosse capitato prima. Si udì il gonfiarsi del mare, e il tuonare del suo ingrossarsi, mentre le acque sotto di me ondeggiavano e crescevano, diveniva in ogni momento più sinistro e terribile.

Spinsi in avanti, ma fu inutile. Il vento si alzava, il mare mugghiava e, come per il colpo possente di un terremoto, si incrinò e si spaccò con un suono tremendo e schiacciante. L'opera fu presto compiuta: in pochi minuti un mare in tumulto si agitava tra me e il mio nemico, e io restavo alla deriva su una lastra di ghiaccio, che si rimpiccioliva in continuazione e mi preparava così una morte orrenda.

Trascorsi in questo modo molte ore terribili; parecchi dei miei cani morirono, e io stesso stavo per restare schiacciato sotto quel cumulo di avversità, quando vidi il vostro vascello che stava all'ancora e che mi offriva speranze di soccorso e di vita. Non pensavo che delle navi arrivassero così a nord e fui stupito di quella vista.

Subito distrussi parte della slitta per costruire dei remi e con questi fui capace, con uno sforzo infinito, di muovere la mia zattera ghiacciata verso la vostra nave. Avevo deciso che, se voi andavate verso sud, mi sarei affidato alla clemenza del mare, piuttosto che abbandonare il mio obiettivo. Speravo di convincervi a concedermi una barca con cui avrei potuto inseguire il mio nemico. Ma voi andavate verso settentrione. Mi avete preso a bordo quando il mio vigore era esaurito, e sarei presto sprofondato tra le mie tante difficoltà, in una morte che ancora temo, perché il mio obiettivo non è stato realizzato.

Oh! Quando lo spirito che mi guida, conducendomi al demone, mi permetterà quel riposo che desidero tanto? o devo io morire e lasciarlo in vita? Se muoio, giuratemi, Walton, che lui non sfuggirà, che voi lo cercherete e soddisferete, con la sua morte, la mia vendetta. E oso io chiedervi di intraprendere il mio compito, di sopportare le difficoltà che ho subito? No; non sono così egoista. Però, quando sarò morto, se egli vi dovesse apparire, se i ministri della vendetta dovessero condurlo presso di voi, giurate che non vivrà: giurate che non trionferà sul cumulo delle mie pene per allungare la lista dei suoi crimini oscuri. Lui è eloquente e persuasivo, e una volta le sue parole hanno avuto potere persino sul mio cuore; ma non fidatevi, il suo spirito è infernale come il suo aspetto, pieno di inganno e di malvagità demoniaca. Non ascoltatelo; invocate i nomi di William, di Justine, di Clerval, di Elizabeth, di mio padre e del disgraziato Victor, e ficcate la vostra spada nel cuo cuore. Io aleggerò vicino a voi e terrò dritta la lama.

 

Walton, continuazione

 

26 agosto, 17-

 

Hai letto questa strana e terribile storia, Margaret; e non senti il sangue raggelarsi per l'orrore, quello stesso orrore che ancora adesso agghiaccia il mio? A volte, colpito da una angoscia improvvisa, lui non riusciva a continuare il racconto; in altri casi la sua voce rotta, ma tuttavia penetrante, emetteva con difficoltà quelle parole, così colme di angoscia. I suoi occhi nobili e belli ora si illuminavano di indignazione, ora soggiacevano scoraggiati al dolore e si spegnevano in una disperazione infinita. A volte controllava la sua espressione e i suoi toni e raccontava gli eventi più terribili con voce tranquilla, eliminando ogni segno di inquietudine, poi, come un vulcano in eruzione, il suo volto assumeva ad un tratto l'espressione della più selvaggia rabbia e urlava imprecazioni contro il suo persecutore.

Il suo racconto è coerente ed è stato raccontato nel modo con cui si dice la più semplice verità, tuttavia ti devo dire che le lettere di Felix e di Safie, che egli mi ha mostrato, e l'apparizione del mostro che abbiamo visto dalla nostra nave, mi convincono della verità del suo racconto più delle sue asserzioni, per quanto oneste e coerenti. Dunque esiste davvero un mostro del genere! Non posso dubitarne, eppure mi perdo nella sorpresa e nell'ammirazione. Talvolta ho cercato di ottenere da Frankenstein i dettagli della composizione della sua creatura, ma su questo argomento era impenetrabile.

«Siete pazzo, amico mio?», diceva. «Dove vi porta la vostra sconsiderata curiosità? Anche voi vorreste creare un nemico infernale, per il mondo e per voi stesso? Tacete, tacete! Imparate dalle sofferenze, e non cercate di aumentare le vostre.»

Frankenstein si è accorto che ho preso degli appunti sulla sua storia; mi ha chiesto di vederli e poi lui stesso li ha corretti e allungati in molti punti, ma soprattutto ha dato lo spirito e la vitalità alle conversazioni che aveva tenuto con il suo nemico.

«Dato che avete conservato il mio racconto», ha detto, «non vorrei che una storia mutilata raggiungesse la posterità.»

Così, mentre ho ascoltato il più strano racconto che mai l'immaginazione abbia formato, è passata una settimana. I miei pensieri e ogni sentimento del mio spirito sono stati rapiti dall'interesse per il mio ospite, dovuto a questo racconto e ai suoi modi gentili. Vorrei calmarlo, ma posso consigliare di vivere a uno la cui sofferenza è così infinita, così priva di ogni speranza di consolazione? Oh, no! La sola gioia che conoscerà sarà quando potrà comporre il suo animo annientato nella pace e nella morte. Eppure gode di un conforto, il frutto della solitudine e del delirio; quando nei sogni conversa coi suoi cari e trae da quella comunione consolazione per le sue miserie o incitamento alla sua vendetta, egli crede che non siano i frutti della sua fantasia, ma gli esseri stessi che lo visitano dalle regioni di un mondo remoto. Questa fede dà una solennità alle sue fantasticherie che me le rendono reali quasi quanto la verità.

Le nostre conversazioni non sono sempre confinate alla sua storia e alle sue disgrazie. Su qualunque campo della cultura egli mostra una conoscenza illimitata e una comprensione rapida e penetrante. La sua eloquenza è impetuosa e toccante; né riesco ad ascoltarlo senza lacrime, quando racconta di un avvenimento triste o cerca di muovere le passioni della pietà o dell'affetto. Che creatura straordinaria deve essere stata nei giorni della sua prosperità, se è ancora così nobile e divino nella rovina! Sembra accorgersi del suo valore e della grandezza della sua caduta.

«Quand'ero più giovane», ha detto, «mi credevo destinato a qualche grande impresa. I miei sentimenti erano profondi, ma possedevo una freddezza di giudizio che mi rendeva capace di grandi risultati. La coscienza del valore della mia natura mi sosteneva quando gli altri si sarebbero sentiti oppressi, perché stimavo criminale gettare via in dolori inutili quelle capacità che avrebbero potuto essere utili ai miei simili. Quando pensavo al lavoro che avevo fatto, nientemeno che la creazione di un animale sensibile e razionale, non potevo mettermi nella schiera dei comuni inventori.

Ma questo pensiero, che mi sosteneva all'inizio della mia carriera, ora serve solo a spingermi più in basso nella polvere. Tutte le mie speculazioni e le mie speranze sono come niente, e come l'arcangelo che aspirava all'onnipotenza, sono incatenato per sempre all'inferno. Avevo una fantasia vivace, e tuttavia la mia capacità di analisi e la mia applicazione erano intense; con l'unione di queste qualità ho concepito e realizzato la creazione di un uomo. Pure adesso non posso ricordare senza passione le fantasticherie che facevo quando la mia creazione era ancora incompleta. Calpestavo il paradiso nei miei pensieri, ora esultando all'idea dei miei poteri, ora infiammandomi all'idea dei loro effetti. Sin dall'infanzia mi ero impregnato di grandi speranze e di un'ambizione orgogliosa, ma come sono finito! Oh! Amico mio, se mi aveste conosciuto come ero una volta, non mi riconoscereste in questo stato di degradazione. Di rado l'abbattimento visitava il mio cuore; un destino elevato sembrava sospingermi avanti, fino a quando sono caduto, per non alzarmi più, mai più.»

Devo perdere questo essere ammirevole? Ho tanto desiderato un amico; ho cercato qualcuno che condividesse i miei sentimenti e mi volesse bene. Ebbene, in questi mari deserti, ne ho trovato uno, ma temo di averlo trovato solo per conoscere il suo valore e per perderlo. Io lo riconcilierei con la vita, ma lui rifiuta l'idea.

«Vi ringrazio, Walton», ha detto, «per la vostra cortesia verso un così miserabile disgraziato; ma quando parlate di nuovi legami e di affetti recenti, pensate che qualcosa può prendere il posto di ciò che se n'è andato? Può un solo uomo essere per me ciò che era Clerval, o una donna essere un'altra Elizabeth? Anche quando non c'è qualche virtù superiore a sospingere con forza i nostri affetti, i compagni della nostra gioventù posseggono sempre un certo potere sulle nostre menti cui difficilmente perviene un amico incontrato più tardi. Essi conoscono il nostro carattere di fanciulli, che, per quanto in seguito possa modificarsi, non viene mai sradicato; e possono giudicare sulle nostre azioni con conclusioni più certe, riguardo all'integrità delle nostre ragioni. Un fratello o una sorella non possono mai, a meno che tali effetti si siano mostrati subito, sospettare l'altro di frode o di doppiezza, mentre un altro amico, per quanto forte possa essere il suo attaccamento, può, suo malgrado, essere guardato con sospetto. Io però ho avuto amici, cari non per l'abitudine o per la continuità dei rapporti, ma per i loro stessi meriti e, dovunque sia, la dolce voce di Elizabeth e la conversazione di Clerval saranno sempre un sussurro nei miei orecchi. Sono morti, e solo un sentimento, in tale solitudine, può persuadermi a conservare la vita. Se avessi da compiere una qualche grande impresa, o un qualche progetto, pieni di notevole utilità per i miei simili, allora potrei vivere per adempierli. Ma non è questo il mio destino; io devo inseguire e annientare l'essere al quale ho dato l'esistenza; poi il mio destino sulla terra sarà compiuto e potrò morire.»

 

2 settembre

 

Mia diletta sorella,

ti scrivo circondato dal pericolo e non so se sono destinato a vedere ancora la cara Inghilterra e gli amici diletti che vi abitano. Sono circondato da montagne di ghiaccio che non concedono fuga, e minacciano in ogni istante di schiacciare il mio vascello. Gli uomini coraggiosi che ho convinto a farmi da compagni si rivolgono a me per aiuto, ma non ho niente da offrire loro. C'è qualcosa di terribilmente spaventoso nella nostra situazione, tuttavia il mio coraggio e le mie speranze non mi abbandonano. Certo è terribile pensare che tutti questi uomini rischiano le loro vite per colpa mia. Se saremo perduti, i miei folli progetti ne saranno stati la causa. E quale sarà lo stato del tuo animo, Margaret? Tu non saprai della mia fine e aspetterai con inquietudine il mio ritorno. Passeranno anni, e cadrai preda della disperazione, ma sarai anche tormentata dalla speranza. Oh! Mia diletta sorella, il crollo doloroso delle tue speranze per me è peggio della mia stessa morte. Ma hai un marito e dei bambini deliziosi; tu puoi essere felice. Il cielo ti benedica e ti renda tale.

Il mio sfortunato ospite mi guarda con la più tenera compassione. Cerca di riempirmi di speranze e parla come se la vita fosse un bene di valore, per lui. Mi ricorda quante volte, altri navigatori che si sono avventurati per questi mari, si siano trovati nelle stesse difficoltà, e mio malgrado mi riempie di auguri sereni. Anche i marinai sentono il potere della sua parola. Quando parla lui, non si disperano più; sostiene le loro energie e, mentre parla, si convincono che queste enormi montagne di ghiaccio non sono altro che tane di talpe che scompariranno di fronte alla determinazione dell'uomo. Questi sentimenti sono effimeri; ogni giorno in cui l'attesa si protrae, li riempie di paura, e ho quasi il timore che questa disperazione causi un ammutinamento.

 

5 settembre

 

È appena avvenuta una scena di così singolare interesse che, sebbene sia quasi certo che questi fogli non ti raggiungeranno mai, non posso fare a meno di annotarla.

Siamo ancora circondati dalle montagne di ghiaccio, ancora nell'imminente pericolo di essere schiacciati nel loro cozzo. Il freddo è molto forte, e molti dei miei sfortunati compagni hanno già trovato una tomba in mezzo a questo scenario di desolazione. Frankenstein è peggiorato di salute, giorno dopo giorno; i suoi occhi lampeggiano ancora di un fuoco febbrile, ma è esaurito e, quando improvvisamente si alza per fare qualcosa, subito ricade giù in una apparente apatia.

Ho menzionato, nell'ultima lettera, i miei timori di un ammutinamento. Questa mattina, mentre sedevo a osservare lo sguardo perso nel vuoto del mio amico - i suoi occhi semichiusi e le sue membra ciondoloni - la mia attenzione è stata richiamata da una mezza dozzina di marinai, che hanno richiesto di entrare in cabina. Sono entrati, e il loro capo si è rivolto a me, e mi ha detto che lui e i suoi compagni erano stati scelti dagli altri marinai per venire da me in rappresentanza, a farmi una richiesta che, in giustizia, non potevo disattendere. Eravamo circondati dal ghiaccio e probabilmente non ne saremmo mai fuggiti, ma loro temevano che qualora, come era possibile, il ghiaccio si fosse dissolto e si fosse aperto un passaggio libero, io sarei stato tanto avventato da continuare il viaggio e portarli verso nuovi pericoli, dopo aver superato felicemente questo. Insistevano dunque perché facessi solenne promessa che, se il vascello si fosse liberato, avremmo fatto immediatamente rotta verso sud.

Questo discorso mi turbò. Io non avevo disperato, né avevo neppure preso in considerazione l'idea di ritornare, se ci fossimo liberati. Tuttavia, era giusto, o era anche solo possibile rifiutare la loro richiesta? Esitai prima di rispondere, ma Frankenstein, che dapprima era rimasto in silenzio e invero pareva appena aver la forza di prestare attenzione, si scosse. Rivolgendosi agli uomini, disse:

«Che significa questo? Cosa richiedete al vostro capitano? È dunque così facile per voi mutare animo? Non avete detto che questa era una spedizione gloriosa? E perché mai era gloriosa? Non perché la via fosse placida e piana come quella di un mare del sud, ma perché era piena di pericoli e di terrori, perché a ogni nuovo incidente dovevate tirar fuori la vostra forza ed esibire il vostro coraggio, perché il pericolo e la morte la circondano, e questi voi dovete sfidare e vincere. Per questo era un'impresa gloriosa, per questo era un'impresa onorevole.

In seguito a questo vi avrebbero salutati come i benefattori della vostra specie, e i vostri nomi sarebbero stati adorati come quelli di uomini coraggiosi che avevano incontrato la morte per l'onore e il bene dell'umanità. E ora, guardate: con la prima ombra di pericolo o, se preferite, con la prima prova possente e terribile per il vostro coraggio, voi indietreggiate e siete soddisfatti di essere ricordati come uomini che non ebbero la forza di sopportare il freddo e il pericolo, e così, poverini, erano infreddoliti e tornarono ai loro caldi caminetti. Ma per questo non c'era bisogno di tutto quest'apparato; non era necessario arrivare così lontano e trascinare il vostro capitano nella vergogna di una disfatta solo per dar prova che siete dei vigliacchi.

Oh! Siate uomini, anzi, siate più che uomini! Restate fissi nei vostri obiettivi e fermi come rocce. Il ghiaccio non è fatto della materia di cui il vostro cuore può forgiarsi; è mutevole, e non può opporsi a voi, se voi dite che non deve. Non tornate alle vostre famiglie con il segno del disonore stampato sulla fronte. Tornate come eroi che hanno lottato e conquistato e che non sanno cosa vuol dire girare le spalle al nemico».

Disse questo con una voce così modulata, a seconda dei diversi sentimenti espressi nel suo discorso, con lo sguardo così colmo di superbe intenzioni e di eroismo, che puoi stupirti se questi uomini rimasero colpiti? Si guardarono l'un l'altro e non furono capaci di rispondere. Parlai io; dissi loro di ritirarsi e di prendere in considerazione ciò che era stato detto, che non li avrei condotti ancora più a nord se desideravano fermamente il contrario, ma che speravo che, con la riflessione, il loro coraggio sarebbe ritornato.

Si ritirarono e io mi rivolsi al mio amico, ma lui era sprofondato di nuovo nello sfinimento e sembrava quasi privo di vita.

Come terminerà tutto questo non lo so, ma preferirei morire, piuttosto che ritornare ignominiosamente, con il mio obiettivo fallito. Eppure temo che sarà questo il mio destino; gli uomini, non sostenuti da idee di gloria e di onore, non possono continuare volontariamente a sopportare le attuali difficoltà.

 

7 settembre

 

Il dado è tratto; ho acconsentito a ritornare qualora non veniamo annientati. Così le mie speranze sono distrutte dall'indecisione e dalla viltà; torno indietro ignorante e deluso. Ci vuole più filosofia di quella che posseggo per sopportare con pazienza questa ingiustizia.

 

12 settembre

 

È finita; sto tornando in Inghilterra. Ho perso le mie speranze di gloria e di rendermi utile; ho perso il mio amico. Ma cercherò di raccontarti in dettaglio questi casi amari, mia cara sorella; e, mentre sono sospinto verso l'Inghilterra e verso di te, non mi farò prendere dall'abbattimento.

Il 9 settembre, il ghiaccio ha cominciato a muoversi, e dei fragori simili ai tuoni si sentivano in distanza, mentre le isole di ghiaccio si fendevano e si frantumavano in tutte le direzioni. Il pericolo ci sovrastava ma, dato che potevamo solo restare passivi, la mia attenzione fu presa soprattutto dal mio sfortunato ospite, la cui malattia peggiorava in modo tale che stava sempre confinato nel suo letto. Il ghiaccio si ruppe dietro di noi e fu portato via con forza verso nord; una brezza si alzò da occidente e, il giorno 11, il passaggio verso sud era completamente libero. Quando i marinai hanno visto questo, che il loro ritorno ai paesi natii era apparentemente certo, un tumultuoso urlo di gioia è scoppiato fra di loro, forte e prolungato. Frankenstein, che stava dormendo, si è svegliato e ha chiesto la causa dello schiamazzo.

«Gridano», ho detto io, «perché ritorneranno presto in Inghilterra.»

«Allora tornate davvero?»

«Ahimè! Sì! Non posso oppormi alle loro richieste. Non posso condurli verso il pericolo se non vogliono, e devo tornare.»

«Fate così, se volete; ma io no. Voi potete abbandonare il vostro obiettivo, ma il mio mi è assegnato dal cielo e non oso. Sono debole, ma di certo gli spiriti che assistono la mia vendetta mi forniranno forza sufficiente.»

Dicendo questo, cercò di saltar su dal letto, ma quello sforzo fu eccessivo per lui: ricadde giù e svenne.

Ci volle molto prima che si riprendesse, e spesso pensai che la vita si fosse del tutto spenta in lui. Alla fine aprì gli occhi: respirava a fatica e non era capace di parlare. Il medico gli diede un calmante e ordinò che fosse lasciato tranquillo. Nel frattempo mi disse che il mio amico aveva di certo poche ore di vita.

La sua sentenza era pronunciata, e lui poteva solo soffrire ed essere paziente. Mi sedetti accanto al suo letto, a guardarlo; aveva gli occhi chiusi, e pensavo che dormisse, ma subito mi chiamò con voce flebile e pregandomi di avvicinarmi, mi disse:

«Ahimè! La forza su cui contavo se n'è andata; sento che presto morirò e lui, il mio nemico, il mio persecutore potrebbe essere ancora vivo. Non crediate, Walton, che negli ultimi momenti della mia esistenza provi quell'odio bruciante e quell'ardente desiderio di vendetta che una volta ho espresso; ma mi sento giustificato nel desiderare la morte del mio avversario. Durante questi ultimi giorni mi sono dedicato a esaminare la mia condotta passata: non la trovo degna di biasimo. In un attacco di folle rapimento ho creato un essere razionale ed ero tenuto ad assicurargli, per quanto era in mio potere, la felicità e il benessere. Questo era mio dovere, ma c'era un'altra cosa ben più importante. I miei doveri verso gli esseri della mia specie avevano un maggiore richiamo per la mia attenzione perché concernevano una più ampia misura di felicità o di miseria.

Spinto da quest'ottica ho rifiutato - e ho fatto bene a rifiutare - di creare una compagna per la prima creatura. Nella sua malvagità ha dato prova di un egoismo e una malignità senza pari: ha annientato i miei cari e si è dedicato alla distruzione di esseri che avevano sentimenti squisiti, felicità e saggezza, né so dove potrà condurre questa sete di vendetta. Miserabile lui stesso, deve morire, affinché non renda infelice nessun altro. Il compito della sua distruzione era mio, ma ho fallito. Quando ero mosso da ragioni egoistiche e malvagie, vi ho chiesto di intraprendere la mia opera non ultimata, e ora, sospinto solo dalla ragione e dalla virtù, vi rinnovo questa richiesta.

Tuttavia non posso chiedervi di rinunciare al vostro paese o ai vostri amici per portare a termine questo incarico; e ora che tornate in Inghilterra, avrete poche possibilità di incontrarlo. Ma a voi lascio la riflessione su queste cose, e la giusta valutazione di quale stimate sia il vostro dovere; il mio giudizio e le mie idee sono già turbate dall'approssimarsi della morte. Non oso chiedervi di fare ciò che penso giusto, perché potrei essere ancora fuorviato dalla passione.

Mi disturba che viva e sia uno strumento di misfatti: peraltro, questa ora, in cui da un momento all'altro aspetto la mia liberazione, è la sola felice di cui abbia goduto da parecchi anni. Le forme dei miei amati morti aleggiano di fronte a me, e io mi affretto fra le loro braccia. Addio, Walton! Ricercate la gioia nella tranquillità ed evitate l'ambizione, anche se fosse solo quella apparentemente innocente di distinguervi nella scienza e nelle scoperte. Ma perché dico questo? Io sono stato sconfitto nelle mie speranze, eppure un altro potrebbe aver successo».

Mentre parlava la sua voce si indeboliva e alla fine, esaurito da questo sforzo, cadde nel silenzio. Circa mezz'ora dopo cercò di nuovo di parlare, ma non fu capace; mi strinse flebilmente la mano, e i suoi occhi si chiusero per sempre, mentre la luce di un sorriso gentile passava sulle sue labbra.

Margaret, che posso dire della morte prematura di questo splendido spirito? Che posso dire per farti comprendere la profondità del mio dolore? Tutto ciò che posso esprimere è vago e inadeguato. Sto piangendo; la mia mente è oscurata dalla delusione. Ma viaggio verso l'Inghilterra e forse là troverò consolazione.

Devo interrompermi. Che significano questi rumori? È mezzanotte; il vento soffia dolcemente e la vedetta sul ponte si muove appena. Di nuovo c'è un suono come di voce umana, ma più aspra; viene dalla cabina dove giacciono ancora le spoglie di Frankenstein. Devo andare a vedere. Buona notte, sorella mia.

Buon Dio! Che scena è avvenuta! Mi sento ancora girare la testa a pensarci. Non so neppure se sarò capace di raccontarla in dettaglio; eppure il racconto che ho scritto sarebbe incompleto senza questo finale tragico e meraviglioso.

Sono entrato nella cabina dove giacevano le spoglie del mio amico ammirevole e sventurato. China su di lui c'era una forma che non trovo parole per descrivere: era di statura gigantesca, ma di proporzioni strane e deformi. Dato che era piegato sulla bara, il suo volto era nascosto da lunghi ciuffi di capelli spettinati, ma si vedeva una delle sue grandi mani, simile nel colore e nell'aspetto a quella di una mummia. Come mi sentì avvicinare cessò le sue esclamazioni di dolore e di orrore e si gettò verso la finestra. Non ho mai visto niente di più orribile della sua faccia, così disgustosa e così spaventosamente odiosa. Senza volere, chiusi gli occhi e cercai di rammentare quali fossero i miei doveri riguardo a quell'assassino. Gli gridai di fermarsi.

Si fermò, guardandomi con meraviglia, e di nuovo rivoltosi verso la forma senza vita del suo creatore, parve dimenticare la mia presenza e ogni suo gesto e ogni suo tratto sembrarono ispirati dalla più selvaggia rabbia e da qualche passione incontrollabile.

«Anche questa è una mia vittima!», esclamò. «Nel suo assassinio i miei crimini sono consumati; la serie miserabile dei miei atti è giunta alla sua fine. Oh, Frankenstein! Essere generoso e devoto! Che conta adesso che ti chieda di perdonarmi? Io, che ti ho irrimediabilmente distrutto, annientando coloro che amavi. Ahimè! È freddo: non mi può rispondere.»

La sua voce sembrava soffocata, e il mio primo impulso, suggerito dal dovere di obbedire alla richiesta del mio amico morente di distruggere il suo avversario, restò come sospeso in un misto di curiosità e compassione. Mi avvicinai a quell'essere terribile; non osavo alzare di nuovo gli occhi sul suo volto, dato che c'era qualcosa di troppo spaventoso e inumano nella sua deformità. Cercai di parlare, ma le parole mi morirono sulle labbra. Il mostro continuava a rimproverarsi da solo, in modo selvaggio e incoerente. Alla fine decisi di rivolgermi a lui in una pausa della tempesta della sua passione.

«Il tuo pentimento», dissi, «è superfluo, ormai. Se tu avessi ascoltato la voce della coscienza e avessi badato al pungolo del rimorso prima di spingere la tua vendetta diabolica sino alle estreme conseguenze, Frankenstein sarebbe ancora vivo.»

«Sogni forse?», disse il demone. «Pensi che allora fossi sordo all'angoscia e al rimorso? Egli», continuò, indicando il cadavere, «egli non ha sofferto nella perpetrazione del delitto. Oh! Neppure la decimillesima parte dell'angoscia che fu mia durante il lento protrarsi dell'esecuzione. Un egoismo spaventoso mi spingeva avanti, mentre il mio cuore era avvelenato dal rimorso. Pensi che i gemiti di Clerval fossero musica per le mie orecchie? Il mio cuore era fatto per essere sensibile all'amore e all'affetto e, quando fu sviato dalla sofferenza, verso il male e verso l'odio, non ha sopportato la violenza del cambiamento senza una tale tortura che non puoi nemmeno immaginare.

Dopo l'omicidio di Clerval sono tornato in Svizzera, col cuore a pezzi e sconfitto. Provavo pietà per Frankenstein: la mia pietà era un vero e proprio orrore e detestavo me stesso. Ma quando scoprii che lui, l'autore della mia esistenza e assieme di tutti i miei inesprimibili tormenti, osava aspirare alla felicità, che mentre lui accumulava sventure e disperazione su di me cercava la sua gioia in sentimenti e passioni dal cui abbraccio io ero per sempre escluso, allora un'invidia impotente e un'amara indignazione mi riempirono di una sete di vendetta insaziabile. Ricordai la mia minaccia e decisi che doveva essere messa in atto. Sapevo che preparavo per me una tortura mortale, ma io ero lo schiavo, non il padrone, di un impulso che detestavo e al quale non potevo disobbedire. Ma quando lei morì! No, allora non fui infelice. Avevo gettato tutti i sentimenti, repressa tutta l'angoscia, per abbandonarmi in preda alla mia disperazione. Da allora in poi il male divenne il mio bene. Spintomi a questo punto, non avevo altra scelta che adattare la mia natura all'elemento che avevo volontariamente scelto. La consumazione del mio disegno diabolico divenne una passione insaziabile. E ora è finita; ecco la mia ultima vittima!»

Dapprima fui toccato da quella manifestazione di sofferenza ma, quando ricordai ciò che Frankenstein aveva detto delle sue capacità di eloquenza e di persuasione, e quando gettai di nuovo lo sguardo sulla forma priva di vita del mio amico, l'indignazione si riaccese dentro di me.

«Mostro!», dissi, «hai fatto bene a venire qui a piagnucolare sulla desolazione che hai creato. Hai gettato una torcia in un gruppo di edifici e, dopo che sono bruciati, ti siedi tra le rovine e ne piangi la distruzione. Demonio ipocrita! Se quello che tu piangi fosse ancora vivo, sarebbe ancora l'oggetto, di nuovo diventerebbe la preda della tua maledetta vendetta. Non è pietà quella che senti; ti lamenti solo perché la vittima della tua malvagità si è per sempre sottratta al tuo potere.»

«Oh, non è così... non è così», mi interruppe l'essere. «Certo tale deve essere l'impressione che ti viene dal significato apparente delle mie azioni. Ma non cerco compassione per la mia infelicità. Non potrò mai trovare comprensione. Quando l'ho cercata, erano l'amore della virtù, i sentimenti di felicità e di affetto che traboccavano dal mio essere, che io volevo donare agli altri. Ma ora che la virtù per me è diventata un'ombra e che la felicità e l'affetto sono diventate una disperazione amara e disgustosa, perché dovrei cercare comprensione? Mi sta bene di soffrire da solo finché la mie sofferenze dureranno; quando morirò, mi andrà bene che solo l'obbrobrio e l'orrore pesino sulla mia memoria.

Un tempo la mia fantasia era rallegrata da sogni di virtù, di fama e di gioia. Un tempo sperai inutilmente di incontrare esseri che, perdonando la mia forma esterna, mi avrebbero amato per le ottime qualità che ero capace di svelare. Mi alimentavo di pensieri elevati di onore e devozione. Ma ora il crimine mi ha degradato al di sotto del più spregevole animale. Non esiste alcuna colpa, misfatto, malvagità o sofferenza, che si possano paragonare alle mie. Quando scorro la serie spaventosa dei miei peccati, non posso credere di essere la stessa creatura f cui pensieri una volta erano colmi di visioni sublimi e trascendenti di bellezza e della maestosità del bene. Però è così; l'angelo caduto è divenuto un demone malvagio. Ma anche il nemico di Dio e degli uomini aveva amici e associati nella sua desolazione: io sono solo.

Tu, che chiami amico Frankenstein, sembri conoscere i miei crimini e le mie disgrazie. Ma nei particolari che lui ti ha dato non puoi avere un'idea delle ore e dei mesi di sofferenza che ho sopportato, logorandomi tra passioni impotenti. Perché, mentre io distruggevo le sue speranze, lui non soddisfaceva i miei desideri. Erano sempre ardenti e insistenti; ancora io desideravo amore e compagnia, e ancora ero rifiutato. Era giusto questo? Devo essere considerato il solo criminale quando tutta l'umanità peccava contro di me? Perché non odi Felix, che gettò fuori dalla porta, ingiuriandolo, il suo amico? Perché non maledici il contadino che cercò di annientare il salvatore della sua bambina? No, quelli sono esseri virtuosi e immacolati! Io, il miserabile, il derelitto, io sono un aborto da scacciare, da prendere a calci e da calpestare. Anche adesso mi ribolle il sangue al pensiero di questa ingiustizia.

Ma è vero che sono un mostro. Ho ucciso i buoni e gli indifesi; ho strangolato gli innocenti mentre dormivano, e ho stretto fino alla morte la gola di chi mai aveva offeso me o altri esseri viventi. Ho destinato all'infelicità il mio creatore, il più puro esempio di tutto ciò che è degno di amore e di ammirazione tra gli uomini. Eccolo che giace bianco e freddo nella morte. Tu mi odi, ma il tuo orrore non può eguagliare quello che provo per me stesso. Guardo le mani che hanno compiuto quelle gesta, penso al cuore con cui sono state concepite, e anelo il momento in cui queste mani non mi staranno più davanti agli occhi, il momento in cui quelle visioni non perseguiteranno più i miei pensieri.

Non temere che io sia strumento di futuri misfatti. Il mio compito è quasi completo. Non occorre né la tua morte né quella di altri uomini per portare a compimento la catena della mia esistenza e per attuare ciò che deve essere fatto, ma c'è bisogno della mia. Non pensare che avrò esitazioni a fare questo sacrificio. Lascerò il tuo vascello sulla zattera di ghiaccio che mi ha portato fin qui, e mi dirigerò verso l'estremità più settentrionale della terra; lì metterò assieme la mia pira funebre e consumerò fino alla cenere questo mio misero corpo, di modo che ciò che resterà non offrirà luce alcuna a qualche empio o curioso disgraziato che voglia creare un essere come sono stato io.

Morirò. Non sentirò più le angosce che ora mi consumano, né sarò più in preda a sentimenti insoddisfatti e sempre ardenti. È morto colui che mi chiamò alla vita; e, quando io non sarò più, il ricordo stesso di noi due scomparirà presto. Non vedrò più il sole o le stelle, né sentirò il vento soffiarmi sulle guance. La luce, i sentimenti e le sensazioni, se ne andranno; e così troverò la mia felicità. Qualche anno fa, quando le immagini che offre questo mondo si aprirono a me per la prima volta, quando sentii il caldo carezzevole dell'estate e udii il frusciare delle foglie e il cinguettio degli uccelli, e tutto questo era per me, avrei pianto all'idea di morire; ora è la mia sola consolazione. Contaminato dai delitti e straziato dai più amari rimorsi, dove posso trovare riposo se non nella morte?

Addio! Ti lascio, e tu sei l'ultimo uomo che questi occhi vedranno. Addìo, Frankenstein! Se tu fossi ancora vivo e ancora accarezzassi un desiderio di vendetta contro di me, esso trarrebbe maggior soddisfazione dalla mia vita piuttosto che dalla mia morte. Ma non è stato così: tu hai cercato la mia morte affinché non causassi altra infelicità e, se ancora, in qualche modo a me ignoto, non hai cessato di pensare o di sentire, non puoi desiderare contro di me una vendetta più grande di ciò che io sento. Pur annientato come sei stato, la mia angoscia era superiore alla tua, perché il pungolo amaro del rimorso non cesserà di infiammarsi nelle mie ferite, finché la morte non le chiuderà per sempre.

«Ma presto», urlò, con un entusiasmo triste e solenne, «io morirò, e ciò che ora sento non sarà più sentito. Presto questi ardenti tormenti saranno estinti. Salirò in trionfo sulla mia pira funebre ed esulterò nell'agonia delle fiamme che mi tortureranno. La luce di quell'incendio scomparirà; le mie ceneri saranno sparse nel mare dai venti. Il mio spirito dormirà in pace o, se pure penserà, certo non penserà in questo modo. Addio!» Detto questo si gettò dalla finestra della cabina sulla zattera di ghiaccio che stava accanto al vascello. Presto fu portato via dalle onde, e si perse lontano, nelle tenebre.

 

RAMSEY CAMPBELL

Una nuova vita

 

Ramsey Campbell viene ritenuto il più autorevole degli scrittori dell'Orrore britannici viventi. I suoi romanzi più famosi includono The Doll Who Ate His Mother, The Face That Must Die, The Parasite, The Nameless, The Claw, Incarnate, Obsession, The Hungry Moon, The Influence, Ancient Images, Midnight Sun, The Count of Eleven, The Long Lost e The One Safe Place.

I suoi racconti brevi sono stati raccolti in diversi volumi, i più recenti dei quali sono Alone With the Horrors e Strange Things and Stranger Places. Insieme a Stephen Jones egli è condirettore dell'annuale Best New Horror Series.

Riguardo al racconto che segue, l'autore spiega: «Una nuova vita è stato uno degli ultimi pezzi ispirati ai fumetti EC. È stato scritto nel 1976, anno in cui tutte le mie energie venivano dedicate alla stesura di romanzi basati sui classici dell'Orrore della Universal. Questi lavori vennero pubblicati sotto lo pseudonimo di Carl Dreadstone - inizialmente avevo scelto Carl Thunstone, ma Manly Wade Wellman pensò giustamente che la gente avrebbe potuto credere che lo pseudonimo fosse il suo - sebbene in Inghilterra, per creare ancora più confusione, alcuni apparvero col nome E.K. Leyton.

Speravo di ripubblicare i libri del mio Dreadstone in forma di raccolta ma, ahimè, non è stato possibile. Almeno, però, posso cogliere questa occasione per chiarire una volta per tutte che io ho scritto soltanto The Bride of Frankenstein, The Wolfman e Dracula's Daughter. Gli altri romanzi non hanno alcuna relazione con me, ma ormai perfino Piers Dudgeon, l'editore che ha commissionato la serie, non riesce a ricordare chi li ha scritti».

 

Era già di nuovo cieco. Ma era certo che qualcuno l'aveva osservato a lungo. La sensazione era vaga come il ricordo di un sogno: il luminoso contorno tremante di una testa con il viso immerso nell'ombra. Forse era stato proprio un sogno a svegliarlo.

Il buio si posava sui suoi occhi soffocante come la terra, pesante come il sonno. Pareva ansioso di trascinare alla deriva la sua mente. Lottò contro il flusso informe dei pensieri. Era prossimo a cadere in preda al panico, perché non aveva alcuna idea di dove si trovasse. Cercò di calmarsi. Doveva analizzare ciò che provava, dato che questo l'avrebbe aiutato a capire. Ma si rese conto che non sarebbe stato assolutamente facile capire. Nel buio, le cui profondità non era in grado di sondare, la sua mente pareva perdersi. Aveva la sensazione che le pareti di quell'oscurità stessero crollando, come se il nulla ne divorasse il nucleo. Lanciò un urlo disarticolato.

Dunque aveva un corpo, almeno. Non era riuscito a sentirlo, e aveva avuto paura. L'eco del grido era cupo, ma le pareti che lo circondavano l'assorbirono immediatamente. Quel grido non gli era sembrato affatto la sua voce.

Se non era la sua voce, allora di chi... Respinse quel pensiero. Aveva maggiore autocontrollo, adesso che possedeva di nuovo un corpo. Riusciva a sentire le membra, pur se vagamente. Erano molto deboli: non riusciva a muoverle. Era chiaro che non si era ancora riavuto dalla prova.

Sì, la prova. Cominciava a ricordare: era stato trascinato lontano e poi risucchiato dal fiume, e i flutti si erano richiusi sulla sua faccia con un ruggito tumultuoso. Il peso enorme dell'acqua lo aveva spinto a fondo, dove le sue grida erano diventate un doloroso gorgoglio soffocato. Dopodiché il buio; forse il medesimo che lo circondava adesso. Era stato il fiume a trascinarlo lì?

Era assurdo. Qualcuno doveva averlo salvato e portato fin là. Ma che posto era? Perché il suo salvatore avrebbe dovuto lasciarlo nel buio più totale, perfino quando l'aveva sentito strillare?

Tenne a freno il panico crescente. Doveva prenderla con filosofia... dopotutto era questa, la sua vocazione. Ah, adesso ricordava, e la cosa lo rincuorò. Forse, mentre attendeva che gli tornassero le forze, avrebbe avuto il tempo di riflettere sulle proprie convinzioni. Lo avrebbero confortato. Ma un morso di paura lo convinse che in quel luogo era meglio evitare pensieri del genere. Vi rinunziò nervosamente, sentendosi messo a nudo e vulnerabile. Nella fitta oscurità, un sudore gelido gli imperlò la fronte.

Doveva rassegnarsi a quella situazione finché non ne sapeva di più. Doveva restare immobile e recuperare le forze. Cominciava a sentire debolmente le membra, come se queste stessero lentamente prendendo forma intorno a lui, come se stessero rinascendo in un nuovo corpo. La sua mente rifuggì da quel pensiero. Per un attimo, fu sul punto di lasciarsi travolgere dal panico.

Si concentrò su quella sensazione. Le membra parevano più lunghe, ed erano gelide come marmo. Eppure non poteva dire con certezza che non fosse tutto un effetto della debolezza. Ebbe il timore di stare alterando la realtà, perché significava che non poteva essere sicuro di niente. Quel pensiero lo oppresse come il buio soverchiante. Aveva la sensazione che il suo cervello e i suoi nervi fluttuassero nel vuoto. Era cieco davvero?

Era possibile che lo scampato annegamento lo avesse reso cieco? Mentre respingeva quell'ipotesi, tuttavia, le tenebre lo avvolsero come una maschera. Che razza di posto al mondo poteva essere di un buio così totale? Ricordò la faccia che gli era parso di intravedere. Questo provava che poteva vedere... a parte il fatto che era indistinta come un fantasma della mente, e forse non era stata che questo.

Il pensiero di essere cieco e inerte in quel posto sconosciuto lo terrorizzava. Sentendo le labbra mostruosamente gonfie, urlò di nuovo, nel tentativo di far accorrere ancora la persona che lo aveva osservato... sempre che esistesse davvero.

Sentì l'eco del suo grido infrangersi cupo contro la pietra. All'improvviso lo travolse il panico. Lottò dentro quel corpo inerte, come se fosse possibile riprendersi l'urlo. Non avrebbe dovuto attirare l'attenzione, non avrebbe dovuto far sapere al suo guardiano che era vivo e indifeso. Tutte le paure che fino a quel momento aveva cercato di respingere, adesso gli dicevano che la sua mente sapeva benissimo, in realtà, dove si trovava.

Per un attimo sentì soltanto il battito tumultuoso del proprio cuore. Pareva confondersi con la sua stessa eco, imprigionandolo con un pulsare soffocato e irregolare. Poi si rese conto che invece erano dei rumori discontinui che si avvicinavano. Molto lentamente, qualcuno si stava dirigendo nel buio verso di lui a passo strascicato e alterno.

Strinse forte le palpebre, cercando di rimanere completamente immobile. Era così che restava da bambino, quando la notte si riempiva di diavoli venuti per portarlo all'inferno. Quel ricordo lo atterrì. Nonostante cercasse di ignorarlo, però, quello restava aggrappato alla mente. Ma non aveva il tempo di analizzarlo, perché i passi si erano fermati vicino a lui.

Qualcosa lo toccò rudemente, e una luce lo inondò. La luce era arancione e intermittente, e gli faceva male alle palpebre. Aveva la sensazione che la torcia, della quale sentiva il crepitio, gli venisse puntata sugli occhi; ne sentiva quasi il calore. Si rannicchiò in se stesso per la paura. Si sforzò di tenere gli occhi sempre chiusi malgrado il fastidio della luce. Finalmente questa si allontanò leggermente e, piano piano, tornò il buio. Il suo guardiano lo lasciò solo.

Di nuovo cieco, rimase supino nella cella. Dall'eco dei passi sul pavimento e dal cigolio di uno spioncino, aveva capito che era proprio lì che si trovava. Come potevano averlo condotto in prigione per aver tentato di salvare una ragazza che annegava? O forse le autorità avevano approfittato dell'occasione per arrestarlo per le sue concezioni non cristiane che i teologi dell'Università e il suo vecchio parroco avevano condannato? Ma no, la sua situazione non aveva niente a che fare con le sue credenze.

Ma non era così facile mettere a tacere la mente. Era come se frammenti di pensiero rimasti sospesi al momento del tuffo si stessero riordinando, tornando a posto. Tra poco avrebbe ricordato tutto: anche troppo. Dal momento che ora gli stava tornando la memoria, si rese conto di non ricordare il proprio nome. Il panico parve trascinarlo ancora più profondamente nel buio, dove non c'era suono, dove non esisteva il tempo. Sembrava l'inizio dell'eternità.

Forse lo era. Prima di comprendere appieno questo pensiero, prima di arrendersi interamente al terrore, si costrinse a fare un tentativo per muoversi. Doveva almeno uscire da quello stato di inerzia. Forse era possibile cogliere di sorpresa il suo carceriere. Certo, era così.

Provò a muoversi. Le sue membra gli parvero troppo grandi, staccate da lui... come se l'annegamento le avesse gonfiate e irrigidite. Ma ovviamente non era questo il motivo per cui non le sentiva sue. La ragione era... Lottò per raggiungere il corpo con la mente, più per distrarsi che nella speranza di riuscirvi. I pensieri attendevano pazientemente di giungere alla coscienza.

Alla fine, con un sospiro che gli si sprigionò dal petto come se stesse esalando la vita, rinunziò al tentativo di muoversi. Improvvisamente il pensiero si impose con prepotenza: non riusciva a controllare il corpo perché era morto.

L'idea era terrificante perché spiegava molte cose. Lo schiacciò come se il buio fosse diventato di pietra. La cecità aveva privato la sua mente di ogni difesa. Cercò di pensare, ma il ragionamento confermava le sue paure. Era un bambino solo nel buio.

L'immagine del fiume era troppo vivida per non essere vera. Stava passeggiando lungo il Danubio quando aveva visto cadervi dentro la ragazza. Si era tuffato insieme a un altro, nel tentativo di salvarla. L'altro l'aveva raggiunta. Ma nessuno aveva salvato lui: una corrente improvvisa lo aveva trascinato lontano e poi giù, sempre più giù, troppo a fondo per sopravvivere. Adesso il ricordo lo trascinava giù, nelle tenebre infinite.

Cammin facendo stava preparando la lezione del giorno dopo. Pitagora, Platone, Kant. Che questo avesse a che fare con la sua situazione? No, si disse. Certo che no. Ma aveva il terrore di scoprire dove fosse.

Che atteggiamento da vigliacco! Prima o poi l'avrebbe saputo: non c'era niente da fare, doveva rassegnarsi. Se solo non si fosse sentito così impotente! Forse, cominciando pian piano, sarebbe riuscito a controllare il corpo. Se fosse riuscito a muovere appena un braccio...

Si concentrò sulle membra. Erano gonfie, ma non gli dolevano. Le aveva gelate la pietra sottostante. La schiena pareva rigida come una lastra di marmo; probabilmente la sua mente la stava confondendo con quella sulla quale era sdraiato.

Si concentrò sul braccio destro. Era lontano, separato da lui da quel buio smisurato. Lentamente sentì le dita. Cercò di muoverle singolarmente, ma quelle erano appiccicate come un blocco di carne dentro una sorta di involucro. Erano legate, così come tutto il corpo. In preda al panico, provò a sollevare la mano, ma questa rimase inerte come un pezzo di carne sulla tavola del macellaio.

Si sentì di nuovo come un bambino lasciato al buio, ma anche più solo: perfino il tempo lo aveva abbandonato. Ripensò a quando era piccolo e restava sdraiato nel buio pregando di non perdere mai la fede, perché chi moriva senza credere era destinato ai tormenti eterni. Il suo peggiore terrore era sempre stato quello che il tormento sarebbe stato appropriato alla vittima.

Lottò contro di esso. Come poteva arrendersi senza prima fare una prova con tutte le membra? Brancolò con la mente nel buio, come se si trovasse in una stanza oscura e ingombra di oggetti. Era circondato da mucchi di carne morta: la sua. Alla fine sentì il braccio sinistro.

Era impacchettato in un involucro e posato sul marmo, senza vita. Era così che doveva essere il braccio di una mummia. Sepolti dentro la carne c'erano i nervi e i muscoli, morti e insensibili. Cercò di allargare la mente. Ansimava. I denti battevano con un rumore d'ossa che gli rimbombava nel cranio.

Doveva allungarsi almeno un altro po'. Poteva farlo. Soltanto un dito. Ma la sua mente era persa nel buio; pareva fluttuare senza scopo dentro la carne. Il ripensare alla storia antica aveva risvegliato in lui reminiscenze di Pitagora, Platone, Kant, von Herder, Goethe. Tutti quanti avevano creduto...

La sua mente si ritrasse, cercando di allontanare quei pensieri. La violenta frustrazione che seguì, gli fece serrare il pugno dentro l'involucro.

Per un attimo pensò di averlo soltanto immaginato, ma le sue dita si stavano ancora muovendo, desiderose di liberarsi dal guanto. Riuscì a reprimere un grido di trionfo prima di raggiungere il muro. Si riposò, quindi sollevò il braccio. Lo mosse nel buio, toccando la fredda parete accanto a lui. Tra poco si sarebbe liberato, e allora... Il braccio si alzò di qualche centimetro, poi tremò e ricadde, facendo vibrare tutti i nervi.

Era ancora debole: non doveva aspettarsi troppo. Dopo diversi tentativi, si convinse che non sarebbe mai riuscito a sollevarlo di più, né tantomeno a muovere qualunque altra parte del corpo. Il braccio si rifiutava di piegarsi, di arrivare alle corde: si rifiutava di riconoscerlo. La sua mente era una pozza stagnante chiusa in un pezzo di carne irriconoscibile. Ormai non potevano esserci più dubbi su dove si trovava.

Avevano escogitato bene la tortura: dargli l'illusione del trionfo per poi distruggere meglio tutte le sue speranze. Adesso era arrivato il tormento dell'attesa vana, quello del condannato a morte... a parte il fatto che le sofferenze alle quali era stato condannato lui sarebbero state eterne.

Le sue paure infantili erano state veritiere. Non avrebbe mai dovuto dimenticarle. Per aver messo in dubbio quella fede, per aver creduto che si sarebbe reincarnato - la convinzione alla quale si era aggrappato al momento della morte, nel fiume - era stato condannato in proporzione. Rinascere in un corpo sconosciuto per vivere una tortura senza fine: era questo il suo inferno.

Potevano farlo aspettare anche per un'eternità, e questa sarebbe stata soltanto una frazione di tutto il tempo che avrebbe dovuto scontare. Volevano che la sua mente immaginasse le torture che avevano in serbo per lui, in modo da fargliele patire meglio. Ed era proprio così. La sua povera carne non poteva nemmeno ritrarsi. Ma era certo che avrebbero fatto in modo di renderla sensibile.

Gli pulsava la testa come se tutta la carne del corpo palpitasse. Il battito del sangue lo assordava come un mare molto vicino. Passò di nuovo del tempo prima che avesse la certezza che c'erano degli altri suoni. Il rumore strascicato era ripreso, e con questo si udivano altri passi, più leggeri e più decisi. Stavano venendo da lui.

Trattenne il fiato. Doveva restare assolutamente immobile: aspettavano soltanto che si tradisse. Gli battevano i denti e gli tremavano le labbra. Dietro la porta si udivano sussurrare parole indistinte. Anche se somigliavano a voci umane, era certo che non poteva essere la porta a distorcere i loro suoni. Probabilmente stavano parlando di lui. Cercò di rilassare i muscoli della faccia.

Lo spioncino di ferro cigolò. La torcia illuminò l'interno, indugiando sulle sue palpebre, sfidandolo a restare immobile. Il fiato che rimaneva compresso nei polmoni era pesante come una pietra. Alla fine, una delle voci sussurrò qualcosa, e la luce si spense. Il fiato gli esplose in gola, uscendo con una forza terrificante.

Di sicuro non potevano averlo sentito, di sicuro lo stridore dello spioncino doveva aver coperto il rumore... Ma ecco delle chiavi armeggiare nella serratura. Le palpebre presero a tremare e la faccia a contrarsi incontrollabilmente; la bocca traditrice sbavò. La porta si aprì piano piano, e delle figure gli si misero silenziosamente davanti.

Doveva restare fermo. Prima o poi se ne sarebbero andate. Allora si sarebbe riposato, e avrebbe cercato di liberarsi. Ma la faccia gli sembrava un'enorme maschera aliena, e faceva smorfie indipendentemente dalla sua volontà. Quando si mosse, uno degli osservatori sibilò di trionfo.

Si era tradito. Non c'era più motivo di fingere, e poi quello che immaginava era sicuramente peggio di qualunque cosa avrebbe potuto vedere. Ma quando aprì gli occhi gemette di terrore. Vicino alla torcia una figura ricurva lo stava scrutando attentamente. Una delle sue teste era coperta da un panno.

La seconda figura doveva essere anch'essa un diavolo, pur se sembrava umana: si trattava di un giovane magro con lo sguardo accigliato. Aveva abbassato il capo, e lo stava osservando minuziosamente. Poi si rialzò, scuotendo tristemente la testa.

Quella non poteva essere la reazione di un demone. Quando il giovane fece cenno all'altro di avvicinare maggiormente la luce, l'uomo disteso sulla tavola di marmo vide che quello che teneva la torcia in verità aveva una testa sola e la gobba. La luce rivelò che le corde che lo legavano in realtà erano delle bende.

Lo avevano salvato, allora! Tutte le sue paure e lo stato di paralisi erano soltanto la conseguenza della debolezza! Sollevò un braccio, finché questo ricadde giù estenuato. Il giovane lo vide, ma continuò ad esaminare le altre membra, scuotendo la testa. L'uomo sulla tavola di marmo cercò di parlargli, ma i suoni che gli uscirono dalle labbra non avevano sillabe, non avevano senso.

«Inutile. Che stupido. Un fallimento», mormorò il giovane, parlando quasi con se stesso. «Se penso che avevo una mente simile tra le mani. Come ho fatto a ridurla a questo?»

L'uomo dall'andatura strascicata gli domandò cosa doveva fare. Il giovane gli disse di fare quel che voleva, con indifferenza, senza neppure guardare la vittima che aveva condannato. Uscirono, lasciando la stanza nel buio.

Quando l'eco dei loro passi si spense, l'uomo rimase immobile sulla tavola, cercando di muovere il braccio di un altro millimetro, di pronunciare tre sillabe per dimostrare la propria intelligenza quando fossero tornati. Soltanto tre sillabe: il nome con il quale il gobbo aveva chiamato il padrone: Frank-en-stein.

 

R. CHETWYND-HAYES

Il Creatore

 

In una carriera che copre quasi quattro decadi, Ronald Chetwynd-Hayes ha pubblicato più di sessanta libri tra romanzi, raccolte di racconti e antologie.

Il suo recente romanzo, The Psychic Detective, ha suscitato l'interesse della Hammer Films e della Warner Bros., e il suo racconto The Thing è stato scelto per la realizzazione di un film a cartoni animati per la televisione.

Il suo ultimo libro si intitola Hell Is What You Make It, e alcuni racconti recenti sono apparsi in Dark Voices: The Pan Book of Horror, Weird Tales, After Dark e The Mammoth Book of Werewolves, mentre il Phenix (Francia) e lo Scarlet Street (USA) stanno dedicando dei numeri speciali alla sua opera.

In merito al racconto che segue, dice l'autore con modestia: «Onestamente, non posso che considerare con decisa ammirazione - citando Noel Coward - questo lavoro. Mi è uscito dalle dita e dalla macchina da scrivere liscio come l'olio. E trovo veramente riuscita la trovata che Charles Brownlow riceva la propria educazione nell'arte di creare mostri nella bottega del macellaio e dal distributore di benzina. Ho il forte sospetto che molti chirurghi imparino il mestiere nello stesso modo, e che ne sappiano poco più - o forse anche meno - del mio novello Frankenstein.

Forse ai lettori interesserà sapere che, all'età di sedici anni, dopo aver visto Il figlio di Frankenstein al cinema locale, arrivai a mettere in salamoia il cuore di una pecora nel laboratorio di mio nonno e a distillare l'alcool puro dall'alcool denaturato. Ma non ho mai preteso di creare veramente un mostro...».

 

Charlie Brownlow aveva deciso di creare un mostro.

Niente di complicato, capite. Niente che richiedesse un laboratorio costoso e mucchi di luci lampeggianti e macchine crepitanti. E non era neanche molto bravo a violare tombe a mezzanotte, trafugare cervelli di individui folli, uccidere ignari contadini per avere il loro cuore, o ricorrere a quegli altri trucchi del genere che alla fine avevano condotto alla catastrofe il Barone Frankenstein.

In realtà, dopo un intenso corso di studi - consistente, ad essere sinceri, nel guardare film dell'Orrore alla televisione - era giunto alla conclusione che l'ambizioso Barone era andato troppo oltre. La sua creazione era troppo grossa: un gigantesco bruto che nessuno riusciva a controllare. No, lui avrebbe fatto un mostro più piccolo e più simpatico, da poter portare fuori la sera e spegnere spingendo un pulsante dietro l'orecchio se avesse cercato di ribellarsi.

Adesso, a meno che non abbiate deciso anche voi di creare un mostro, non avete idea dei problemi che ciò implica. Raccogliere il materiale senza seguire la condotta poco etica del Barone era già di per sé una prospettiva da levarti il sonno, e forse non sarebbe mai stato possibile se il nonno di Charlie non avesse deciso di volare nell'eternità su un mare di whisky puro. Quello scriteriato stava poco bene da diverso tempo, visto che il fegato e le reni, dopo un'intera vita di stravizi, avevano gettato la spugna, e l'intera famiglia fu d'accordo che era stata una vera liberazione per tutti.

Ognuno di loro sfilò nella camera mortuaria a rendere l'ultimo saluto al morto prima che chiudessero il coperchio della bara, guardando quella vecchia faccia rovinata con diversi motivi di rammarico. Zia Matilda, per esempio, rimpiangeva che il vecchio non si fosse deciso a trapassare molti anni prima, in modo da darle la possibilità di godersi la sua parte, qualunque essa fosse, prima che arrivasse l'inflazione. Zio George era dispiaciuto perché quel vizioso vecchiaccio non aveva fatto in tempo a restituirgli le cinque sterline che gli aveva prestato tre settimane prima che morisse. La cugina Marion rimpiangeva di non aver consentito a quel vecchio sporcaccione di pizzicarle il posteriore, guadagnandosi così, probabilmente, una sostanziosa menzione nel testamento, che doveva essere ancora aperto. A dire il vero, ognuno di loro rimpiangeva un'occasione perduta o sprecata... ad eccezione di Charlie.

Lui si sarebbe rammaricato più tardi: nel caso non fosse riuscito a trafugare il corpo prima che la bara venisse seppellita nel cimitero.

Non è mia intenzione affermare che rubare il corpo del proprio nonno dalla cassa da morto sia una bella cosa da fare ma, nel nome della scienza, sono state fatte cose ben peggiori. Sono anche dell'opinione che l'iniziativa vada sempre incoraggiata, qualunque sia il campo di interesse della mente.

Forse vi chiederete quale qualifica avesse Charlie, per poter creare un mostro. Be', aveva una certa esperienza chirurgica, avendo lavorato nella bottega del macellaio locale quasi per un anno, durante il quale aveva spellato un numero incalcolabile di conigli, sezionato pecore, messo a nudo i segreti del cuore, del fegato e dei reni dei manzi; era in grado di trovare il punto esatto della lombata, della costoletta, del culaccio, del controgirello, della spalla e dello spezzatino. Pochi chirurghi ne sanno di più... e molti assai meno.

Poi, avendo completato, per così dire, l'apprendistato medico, si era dedicato al campo dell'autodinamica. In altre parole, aveva lavorato per un po' a una pompa di benzina e, con compiti di manutenzione ai motori, nel garage Quick-In Quick-Out. Lì era stato iniziato ai misteri di quello che avviene sotto il cofano di una macchina, agli oscuri segreti del malfunzionamento del carburatore, ai sobbalzi causati dalle batterie scariche, alle fastidiose conseguenze delle candele sporche.

Non occorre troppa immaginazione per capire che il connubio tra questi due mestieri avrebbe dato luogo, prima o poi, a qualcosa di veramente insolito.

Quando tutti i familiari si furono ritirati nel proprio letto solitario - ad eccezione dello zio George, che lo divideva con la cugina Marion - Charlie scese giù piano piano, si recò nel suo laboratorio (il vecchio capannone), si armò di due sacchi di carbone, di un mangano rotto e di un cacciavite, quindi tornò in casa e cominciò a darsi da fare per acquisire il materiale necessario alla creazione del suo mostro.

Togliere le viti non costituiva un grosso problema; far uscire il nonno dalla cassa, invece, era tutta un'altra faccenda. Charlie lo tirò, lo scosse, lo sollevò, ma non ci fu niente da fare, perché pareva che il corpo si ostinasse a tenersi il suo soprabito di legno e ad opporsi alla causa della scienza.

Alla fine Charlie riuscì a risolvere il problema rovesciando la cassa e trascinando il nonno sul tappeto del camino, dove giacque immobile, con l'aria di un occupante abusivo cacciato con la forza da un appartamento di periferia. Quindi il novello Frankenstein sistemò i pezzi del mangano dentro la cassa, li coprì con i sacchi di carbone, e rimise a posto il coperchio. Gli restava soltanto da portare il nonno nel capanno-laboratorio, dove l'avrebbe immerso in un barile di salamoia, lasciandolo marinare bene come il manzo messo sotto sale.

Issò quindi il corpo inerte sulla spalla destra e barcollò lungo il corridoio.

 

Il funerale fu un grande successo.

Il Reverendo Masters pronunciò delle belle parole sulla persona del defunto, anche se furono alquanto imbarazzanti per chi conosceva bene il vecchio che stava per essere seppellito.

«Non pensate», affermò il degno sacerdote, «che il mio vecchio amico si trovi in questa cassa di legno. Credetemi: è stato condotto in un posto dove i vermi non possono consumare la carne, dove non esiste la vecchiaia, e dove non c'è corruzione. Amici, stiamo per affidare alla terra ciò che non serve più; ciò che ha svolto il proprio compito nobilmente e bene - se posso prendere a prestito una frase - ha completato il suo corso.»

A Charlie venne quasi un attacco di cuore quando calarono la cassa nella fossa, perché sentì uno dei trasportatori che sussurrava a un altro:

«Non senti, Harry? Quella vecchia canaglia si sta agitando nella cassa!».

Per fortuna, però, colui cui era diretta questa allarmante notizia, si limitò a scrollare le spalle e disse:

«Eh, sì. Questi vecchiacci fanno sempre così, non è vero?».

Quando furono tornati a casa, si sedettero tutti davanti all'eccellente rinfresco, dando generalmente l'impressione che, avendo finalmente terminato un dovere sgradevole ma necessario, adesso avevano intenzione di godersela. Lo zio George si versò una generosa dose di whisky che prese dalla credenza, quindi strizzò l'occhio alla cugina Marion. Zia Matilda preparò a zia Mildred una generosa porzione di salsicce e purè, e disse alla cugina Jane, che si era trasferita per la terza volta, di versare il tè.

«Non sei decorativa, perciò renditi utile», ciarlò allegramente. «Prendere qualcosa di caldo ci aiuterà a scacciare il gelo di quel cimitero.»

«Si è spento proprio bene», disse la prozia Lydia, mentre spellava una patata bollita. «Secondo me, il Reverendo Masters ha fatto proprio un bel sermone. Mi è piaciuto molto quando ha detto che il caro Arthur non era in quella cassa. È stato un tale sollievo!»

«Prendi una cipollina sotto aceto», la invitò zia Matilda.

«Non mi va, cara, ti ringrazio. Tornano su.»

Per un po' si udì soltanto il rumore delle posate e dei rutti occasionali di zio George. Poi il cugino Daniel, che si era trasferito due volte e che stava dalla parte sbagliata della famiglia, commentò in modo abbastanza macabro:

«È ancora qui».

Charlie rabbrividì e zia Mildred scattò:

«Che vai dicendo? Chi è ancora qui?».

Il cugino Daniel annuì lentamente, dando l'impressione di sapere molto ma di essere disposto a rivelare poco.

«Lui. Il nonno. L'ho sentito andare in giro per la casa, stanotte.»

Tutte le donne strillarono di terrore, sia autentico che simulato, e la cugina Marion svenne e dovette essere portata dallo zio George nella camera da letto migliore. La prozia Lydia espresse tutta la propria indignazione.

«Come osi dire una cosa simile? Soltanto l'idea! Non è rispettoso. A parte il fatto che hai spaventato tutti. Chiedi scusa immediatamente.»

Il cugino Daniel annuì nuovamente.

«Ho sentito quello che ho sentito. Ha fatto un tonfo, poi ha battuto dei colpi, e dopo ha attraversato il corridoio barcollando. Datemi retta: non vuole riposare in pace.»

Durante il temporale che seguì, Charlie se la svignò di nascosto, si recò nell'ex capannone e ammucchiò diversi sacchi sopra il barile della salamoia. Non prima, però, di aver dato una rapida occhiata all'interno. La testa calva del nonno cominciava già ad assumere l'aspetto del cuoio conciato.

 

Zia Matilda stava prendendo il tè con la sua migliore amica, Jennifer Grandlee.

«Charlie si è trovato un passatempo», le disse con una certa soddisfazione. «Devo dire che è una vera novità, per lui, avere un interesse.»

«Tutti gli uomini dovrebbero avere un hobby», osservò Jennifer con grande profondità. «E che tipo di interesse sarebbe, mia cara?»

Zia Matilda ridacchiò.

«Non lo so. È così misterioso! Non vuole farmi entrare nel vecchio capannone. Ma so che usa la sega.»

«Sega il legno», annuì Jennifer. «Bisogna segarlo, per poterlo lavorare.»

«Non fa altro che tagliare», proseguì zia Matilda. «È poi l'ho sentito battere spesso con il martello.»

«Probabilmente sta costruendo una scrivania», disse la signorina Grandlee. «O forse un bel comodino per il letto. Ma naturalmente potrebbe sorprenderti con qualcosa di insolito. Ad esempio un cassettone.»

Zia Matilda aggrottò la fronte, dando l'impressione che stesse pensando.

«Ma allora perché ha avuto bisogno di ago e filo? E di venti iarde di fil di rame?»

Jennifer scosse la testa.

«Onestamente non lo so, mia cara, ma sono sicura che in falegnameria non si usano ago e filo. Almeno non credo. Comunque Charlie ha sempre avuto molta capacità inventiva. Ricordi quella volta che ha fatto i tacchi e la suola alle scarpe con una cotoletta impanata? Hanno emanato cattivo odore per diverso tempo, ma devi ammettere che si era dimostrato molto originale.»

«Ah, se è per questo, è proprio vero», fu d'accordo zia Matilda. «Oh, ma eccolo che arriva.»

Charlie entrò nella stanza e, nel vedere l'ospite, trasalì. Sporco dalla testa ai piedi, aveva l'aspetto che ogni genio dovrebbe avere, anche se raramente è così.

«Non ti sedere sul divano con questi vestiti sporchi», gli disse zia Matilda. «Prima metti un giornale sui cuscini. Che cosa stavi facendo?»

«Mi stavo sbarazzando del materiale in eccesso», rispose Charlie, pensieroso. «Volevo dire... stavo scavando una buca.»

«Fa parte del tuo hobby?», chiese Jennifer timidamente. «Matilda mi ha detto che stai costruendo qualcosa dentro il capannone.»

Ma Charlie era perso in un mondo in cui i cosciotti si univano alle natiche, le spuntature avevano bisogno di certe modifiche, il fegato andava sostituito, i reni avevano perso il grasso, le luci andavano cambiate per colpa di una batteria... e tutto il pezzo era ancora troppo grosso.

«Una testa più piccola e una base ruotante», mormorò. «E le braccia... chi diavolo ha bisogno delle braccia? Un paio d'alberi a gomiti ridotti andranno bene lo stesso. Scusatemi.»

E senza dare ulteriori spiegazioni saltò in piedi e corse via. Zia Matilda sospirò.

«Qualunque cosa stia facendo, di sicuro lo assorbe completamente.»

«Sai, cara», disse Jennifer dopo un po', «credo di aver capito. Sta costruendo una sedia a dondolo con i braccioli di metallo. È molto utile se vuoi andartene in giro senza alzarti.»

 

Zio George era così esterrefatto, che gli andò di traverso il terzo bicchiere di whisky. Battendo un pugno sul bracciolo della sedia, espresse tutta la sua legittima indignazione.

«Perché? È questo che voglio sapere: perché?»

«È tutta colpa della televisione», esclamò zia Matilda. «Dà ai giovani un cattivo esempio. Con quelle Z-Macchine e quell'orribile uomo calvo che finirà per rovinarsi tutti i denti con i leccalecca, è un miracolo se non ci ritroviamo tutti morti dentro il letto.»

«Quella capra la consideravo una buona amica», singhiozzò zio George.

«Ma era già morta», disse zia Matilda.

«Questa non era una buona ragione per staccarle la testa», sbraitò zio George. «Avevo lasciato il corpo di fuori, tutto bello pulito. E poi, stamattina, quando sono andato a prendere la carriola per trasportarla nella sua ultima dimora... non aveva più la testa! Qualche pazzo sanguinario gliel'ha tagliata. E adesso dimmi: perché qualcuno dovrebbe tagliare la testa a una capra? Dev'essere stato qualche svitato.»

«La stessa cosa che è successa con il go-kart di Alfie», disse la cugina Jane. «Qualche banda di ladruncoli gli ha levato le rotelle. Avevano le molle. L'aveva fatto con il carrello da tè di mia madre. A quel piccolo diavoletto gli si è spezzato il cuore quando l'ha trovato. Capite... gli piaceva inseguire il lattaio giù per Parson's Hill. I ragazzi sono ragazzi, dico sempre.»

«Come Charlie», disse con orgoglio zia Matilda. «Rincorre tutto quello che si muove.»

«Tu lo rovini, quel ragazzo», borbottò zio George. «Gli fai fare tutto quello che vuole, anziché fargli trovare un lavoro regolare! Prima o poi finirà male.»

Zia Matilda incrociò le braccia e scosse la testa in segno di disapprovazione.

«Tu pensa agli affari tuoi, George Brownlow. Charlie è l'unico figlio di mio fratello e non ha più i genitori, ora che il padre è morto e la madre è scappata col fidanzato di Prue. Per me è un bravo ragazzo. Porta sempre a casa i soldi del sussidio di disoccupazione anziché andarseli a spendere con le scommesse come qualcuno che so io.»

«Ma che cosa fa tutto il giorno?», domandò zio George. «Se ne sta chiuso in quel capanno... a battere, a segare, e a parlare da solo. Se vuoi il mio parere, finirà male.»

«Nessuno te l'ha chiesto», ribatté zia Matilda. «Sappi, comunque, che sta costuendo una cosa per me per farmi una sorpresa. Una specie di sedia, dice Jennifer.»

La discussione sarebbe continuata ancora se la cugina Jane non avesse detto che erano le sette e mezzo e che era l'ora di Coronation Street.

A metà programma arrivò Charlie, che si draiò sulla poltrona e si mise a guardare con due occhi vitrei lo schermo luminoso, suscitando qualche borbottio di disapprovazione da parte dello zio. Adesso il suo aspetto era perfettamente rispondente all'immagine tipica del genio: i capelli lunghi, il mento non rasato, i vestiti sgualciti e le unghie che non vedevano da molto tempo l'acqua e il sapone. Ma aveva un'aria di soddisfazione quale emana soltanto da chi è vicino al successo in un'impresa tremenda.

Improvvisamente, lo schermo della televisione tremolò, e Annie Walker corse il pericolo di essere decapitata da un lampo. Charlie saltò in piedi e strillò: «La tempesta di fulmini!», poi schizzò via dalla stanza.

Zio George espresse spassionatamente la propria opinione.

«Non c'è niente da fare... è completamente fuori di testa. La prossima volta si metterà a camminare sulle mani quando uscirà il sole.»

Zia Matilda attese che il potente boato di un tuono compisse l'opera - vale a dire far correre la cugina Jane a piagnucolare sotto il tavolo - prima di dire tranquillamente:

«Il fatto che il ragazzo abbia un cervello leggermente diverso da quello di tutti gli altri, non è un buon motivo per sostenere che è pazzo. Stammi a sentire bene: Charlie ci sorprenderà tutti, uno di questi giorni».

«Ma che diavolo gli importa dei fulmini?», domandò zio George.

«Credo che lo interessi l'operato della natura. Jane: esci immediatamente da sotto il tavolo. Se la casa verrà colpita da un fulmine, non sarai al sicuro neanche là. Adesso vado a preparare una bella ciotola di cacao...»

Venne interrotta da un altro boato e da qualcuno che strillava in fondo al giardino, le cui urla diventavano sempre più forti mano a mano che si avvicinava alla casa. Quando la porta sul retro si aprì, l'urlo divenne insopportabilmente acuto, e si udirono delle parole protratte.

«L'...H...O...F...I...N...I...T...O...»

Charlie si precipitò quindi nella stanza. Fece sbattere la porta contro il muro, rovesciò un tavolino, finì addosso alla credenza, fece alzare la zia Matilda dalla sedia e fece ballare l'anziana donna per tutta la camera, mentre continuava a strillare con tutta la sua forza:

«L'ho finito! È completo in ogni dettaglio. E si muove! Si muove...».

Zia Matilda riuscì a divincolarsi, e spinse l'eccitatissimo nipote su una sedia. Si sistemò i capelli in disordine, si accertò che la spilla col cammeo fosse ancora al suo posto, e poi disse con calma:

«Devi imparare a controllarti, caro. Ma sono davvero felice che tu abbia finito... quello che stavi facendo. Sono sicura che sarà molto comoda».

Ma Charlie, ovviamente, non la stava ascoltando, e saltava sul tappeto stringendosi la testa con le mani.

«Dimenticavo perché sono venuto. Posso... posso avere uno dei vestiti di lana del nonno? Non credo che possa prendere il raffreddore, ma le cuciture andrebbero nascoste. Non che non sia bello - nella sua irregolarità - ma non sono molto bravo con ago e filo.»

Zia Matilda parve disorientata come chi ha smarrito la strada e non sa dove deve andare.

«Nell'armadio, tesoro... di sopra...»

Charlie superò con un balzo la cugina Jane, la quale nel frattempo aveva deciso che non c'era più pericolo ed era uscita da sotto il tavolo, e scappò via. Lo sentirono salire le scale di corsa.

«Una sedia... avevi detto?», volle sapere cortesemente zio George.

«Così avevo capito.»

«Una sedia che porta i vestiti?»

«Be', ha detto che servivano per nascondere le cuciture. Sarà una specie di imbottitura, penso.»

Sentirono Charlie che scendeva alcuni scalini e saltava i rimanenti. Il rumore di un secchio caduto indicò che era passato per la cucina. Zio George si alzò lentamente in piedi.

«Vado a dare un'occhiata», annunciò.

«Ma dev'essere una sorpresa.»

«Allora l'avrò per primo.»

Le due donne rimasero a guardarsi e, quando una si mosse, l'altra sobbalzò. L'orologio di marmo sul caminetto segnava le otto, e il temporale ruggì per un'ultima volta prima di disperdersi ad ovest.

«Devo spegnere la tele?», domandò la cugina Jane.

«Sì, cara. Non fanno niente, a quest'ora.»

Dopo un po' sentirono avvicinarsi lentamente dei passi, e lo zio George entrò nella stanza. Camminava in modo strano, con la faccia molto pallida, e si mise seduto su una sedia senza dire una parola. Rimase lì seduto a fissare intensamente un ritratto incorniciato di Dirk Bogarde, per il quale la zia Matilda aveva una vera passione, appeso sulla parete di fronte. Il silenzio alla fine divenne opprimente.

La prima a parlare fu la cugina Jane.

«E allora... che cosa ha costruito?»

Zio George, senza staccare lo sguardo dal signor Bogarde, aprì la bocca... e strillò. Fu uno strillo molto acuto, molto rauco e molto snervante. Nella stanza piombò di nuovo il silenzio, finché zia Matilda trovò il coraggio di domandare:

«George... George, qualcosa non va? Hai bevuto troppo? L'ho sempre detto che l'whisky a stomaco vuoto non fa bene».

Come se questa affermazione avesse fatto scattare una molla, zio George si alzò e si diresse alla credenza, dove si versò una generosa dose di whisky. Lo bevve tutto d'un fiato, posò il bicchiere con estrema cura, poi si girò e urlò di nuovo.

Dopo aver dato questo secondo spettacolo, tornò alla propria sedia e si rimise a contemplare la bellezza classica del volto del signor Bogarde.

«Io vado a casa», annunciò la cugina Jane dopo un attimo di profonda riflessione. «E ho intenzione di chiudere porte e finestre, e non tornare mai più da queste parti.»

«Forse ha il delirium tremens», ipotizzò zia Matilda. «Voglio dire, in quel vecchio capanno non poteva esserci niente per ridurlo in questo modo. È mai possibile...?»

«Io non ho intenzione di scoprirlo.»

«Ma non hai bevuto il cioccolato, cara.»

«Metti pure il tuo cioccolato dove credi meglio. Qualunque cosa abbia fatto strillare il vecchio George come uno spirito impazzito, stai pur certa che non voglio vederla. Se vuoi un consiglio, metti fuori casa quel ragazzo.»

E così raccolse il suo ricamo, due copie di Confessioni autentiche,una scatola di cioccolatini e una torcia elettrica, e si diresse silenziosamente verso la porta. Un altro urlo di zio George e un'occhiata a Charlie che arrivava dal corridoio, rafforzarono ulteriormente il suo proposito di andarsene a casa e, quando fece sbattere la porta principale, l'intero edificio tremò.

Charlie non parve minimamente scomposto da quella fuga improvvisa. Intrufolò la testa nella porta e chiese:

«Posso avere del burro, per favore?».

«Lascia stare il burro», rispose zia Matilda, asciugando la fronte di zio George con un fazzoletto. «Che cosa hai fatto al tuo povero zio? Non capisco che gli è preso. Non la smette di strillare, e i miei nervi non lo sopporteranno ancora per molto.»

Charlie assunse un'espressione cupa e fissò il pavimento con aria di sfida. «Non avrebbe dovuto spiarmi. Doveva essere una sorpresa. Ha guardato dalla finestra prima di darmi il tempo di coprire Oscar con i vestiti del nonno.»

Zia Matilda sollevò un sopracciglio.

«Oscar! Che strano nome per una sedia.»

Charlie fece dondolare una gamba da una parte all'altra.

«Non è una sedia. Non so fare le sedie. È un mostro. Adesso mi hai rovinato la sorpresa, e penso proprio che non te lo farò vedere.»

«Sono sicura, tesoro, che se hai costruito un mostro dev'essere un mostro molto carino», disse con calma zia Matilda. «Ma questo non spiega perché lo zio continui a fissare il signor Bogarde e a strillare. Mia madre diceva sempre che mio fratello era un piccolo mostro, ma sono sicura che non ha mai strillato.»

«Posso avere del burro?», tornò a chiedere Charlie. «Le rotelle del carrello scricchiolano.»

«Va bene. Ma non prenderne troppo, perché costa settanta pence alla libbra.»

Dopo avergli bagnato la fronte con acqua di colonia per quasi cinque minuti, lo zio George cominciò a dare segni di vita. Difatti esaminò ogni singolo pezzo di mobilio contenuto nella stanza con debole interesse, si contò le dita e sembrò profondamente sopreso di vederle tutte lì. Poi si rivolse a zia Matilda e mormorò:

«Ha le corna».

«Davvero? Be', sono sicura che saranno molto utili a qualche cosa. Ti va una bella tazza di cioccolato?»

«E lunghe braccia di metallo», aggiunse lo zio George, riflettendo.

«Personalmente, delle braccia di metallo mi piacerebbero poco», riconobbe zia Matilda, «ma ammetto che sarebbero sempre meglio di niente. Ti preparo un panino col latte condensato, insieme al cioccolato?»

Vedendo che lo zio George insisteva nel darle altre shockanti informazioni, scosse la testa con aria di disapprovazione.

«E come gambe ha soltanto le cosce.»

Una ritirata strategica in cucina era l'unica soluzione, e lì zia Matilda preparò una tazza di cioccolato e spalmò delle belle fette di pane con un generoso strato di latte condensato. Le sembrava di ricordare che qualcosa di dolce e di caldo facesse molto bene a chi aveva subito uno shock. Mentre era tutta presa da questa azione misericordiosa, dal giardino arrivò Charlie, il quale, dopo aver aperto completamente la porta della cucina, domandò con calma:

«Ti dispiace se Oscar entra dentro? Non era contento, nel mio laboratorio».

Senza attendere l'invito, Oscar si intrufolò in cucina.

Ho difficoltà a descrivere questo prodotto simbolo del connubio tra due settori commerciali decisamente diversi. Quello delle carni macellate era certamente responsabile del torso e della testa da capra, mentre l'industra dei motori doveva essere colpevole delle braccia di ferro, degli occhi rossi lampeggianti, e delle candele infilate da ambo i lati del collo di Nonno-Capra. Dei tubi interni, con l'aiuto della colla, nascondevano la cucitura con la quale gli alberi a gomiti che fungevano da braccia venivano congiunti alle spalle, mentre le mani - complete di sei dita - erano state costruite con le molle del cuscino posteriore di una macchina. Ricordando che la compattezza era la caratteristica più importante, Charlie aveva sacrificato buona parte delle gambe del nonno, le quali - come aveva affermato lo zio George con autentica mancanza di tatto - si limitavano alle cosce. I grossi tronconi erano incassati in mozzi di ruota e tenuti saldamente in posizione da una soluzione glutinosa. Due rotelle da carrello - che potevano benissimo appartenere al go-kart di Alfie - erano fissate alla parte interna dei mozzi di ruota, e fungevano da eccellenti sostitute dei piedi, anzi, erano anche meglio. Un vestito di lana nascondeva misericordiosamente le libertà che Charlie doveva essersi preso con il torso del nonno.

Oscar - è con questo nome che d'ora in poi dovremo riferirci a questo ammasso di pezzi - era alto non più di settanta centimetri, ed appariva decisamente sconcertante a chi non avesse apprezzato il disadorno lavoro del genio. E anche il suo apparato di comunicazione lasciava un tantino a desiderare.

La bocca da capra si aprì, un frammento di pala di ventilatore girevole luccicò alla luce del lampadario, e un suono molto acuto e oscillante si trasformò piano piano in parole riconoscibili.

«Questa è Radio Quattro. Per la prossima mezz'ora avremo con noi il professor Hughes, che vi parlerà del suo viaggio sul fiume Zambesi...»

«Oh, maledizione!», protestò Charlie, dando a Oscar una bella botta alla schiena. «Dev'esserci un contatto tra le valvole della radio e la cassa. Aspetta un attimo: ho installato un pannello di strumentazione sotto le scapole.»

Sollevò il vestito di lana, pigiò un pulsante che era stato un comando automatico, manovrò una manopolina di plastica... e alla fine assestò un bel calcio alla parte inferiore del torso del nonno. Questo intervento drastico in effetti si dimostrò decisivo, perché una voce belante domandò:

«Che diaaa... volo succeee... de?».

Charlie si illuminò di soddisfazione.

«Credo che venga dalla parte di cervello del nonno che sono riuscito a impiantare nel cranio della capra. Sai, ho fatto un po' di casino...»

Contrariamente alla propria abitudine di non interrompere mai la gente che parla, zia Matilda lo bloccò. Dal momento della comparsa di Oscar aveva trasalito, sospirato ed emesso qualche mugugno di approvazione, ma non aveva ancora espresso la propria opinione. Ma adesso lo interruppe piuttosto bruscamente.

«Charlie, ho capito bene? Hai usato i resti del tuo caro nonno per costruire questo aggeggio?»

«Be'... sì. Vedi: era molto difficile trovare il materiale, e il nonno sarebbe andato sprecato...»

«Non è una buona scusa. Anche se posso capire il tuo desiderio di fare qualcosa di utile, non avresti dovuto maltrattare il nonno. Non era roba tua. In un certo senso apparteneva a tutti noi, e di sicuro - perlomeno - avresti dovuto sentire me.»

Charlie abbassò la testa.

«Scusami, zietta. Non ci ho pensato.»

Zia Matilda annuì.

«È questo il problema con i giovani: non pensano mai. Va bene: adesso ho chiarito il punto. La faccenda è chiusa. E ora parlami della tua invenzione. Che cosa sa fare?»

Osservarono entrambi Oscar che girava intorno al tavolo della cucina e poi rotolava con leggerezza in salotto, dove lo zio George se ne stava ancora seduto a riflettere sulla possibilità pazzesca di diventare un antialcoolista. Charlie, come tutti i veri artisti, non aveva pensato alla propria creazione in squallidi termini di utilità perché, da quello che ricordava, il mostro del Barone Frankenstein non era stato costruito con uno scopo utile.

«Be'», disse, dopo aver riflettuto in silenzio, «potrei insegnargli a fare dei lavoretti per casa. Che so? Raccogliere le lettere, aprire le scatolette di latte in polvere, e cose del genere.»

Zia Matilda non fece commenti su questa proposta, ed ascoltò le parole belanti che provenivano dal salotto.

«Dooo...vee dia...voo...lo so...noo le mii...ee gaa...mbee?»

«È un peccato che tu abbia usato la parte del cervello del nonno che diceva tante brutte parole», mormorò.

Si udì uno strillo forte, ormai familiare; solo che adesso era più alto, più protratto, quasi il grido di qualcuno che aveva superato i confini della paura ed era entrato in quella zona in bianco e nero dove la realtà si trasforma in folle fantasia. Poi lo zio George lasciò il salotto ad una velocità che avrebbe fatto invidia a un giovanotto a digiuno di whisky.

Oscar lo seguiva da presso. Rotolando con scioltezza, con gli occhi luccicanti come le luci posteriori di una macchina e la testa bassa, faceva muovere silenziosamente le ruote del carrello oleate col burro. Dava proprio l'impressione di essere, almeno per ora, un mostriciattolo molto felice.

Lo strillo dello zio George, mentre si catapultava fuori dalla porta sul retro, fu di sicuro una delle sue rappresentazioni più memorabili, e Oscar, avendo deciso che aveva svolto anche più del suo compito, tornò rotolando dal creatore e belò due parole.

«Maa...lee...dee...ttoo stuu...pii...doo.»

«Devi fare qualcosa per questo linguaggio sboccato», tornò a dire zia Matilda. «È davvero spiacevole.»

 

Adesso so che tutti i mostri creati dall'uomo fanno sempre una brutta fine: o finiscono arrosto nella fornace di un mulino, o si sciolgono in un bagno d'acido, oppure esplodono tirando una leva messa per caso proprio lì, che per qualche mistero fa saltare una tonnellata di esplosivo. Da un punto di vista prettamente morale, sarebbe bello poter dire che fu proprio questo che accadde ad Oscar, ma la verità - quel mostro la cui faccia non dev'esser mai nascosta - mi obbliga a confessare che è ancora vivo e vegeto.

Charlie gli carica la batteria una volta a settimana, e gli ha insegnato a raccogliere le lettere e il giornale dallo zerbino, ad aprire le scatolette di latte in polvere con le corna, e a mandare all'inferno chiunque venga a disturbare zia Matilda quando guarda Coronation Street. Ma, ad essere sinceri, questo non succede spesso, perché le visite sono più l'eccezione che la regola, ultimamente.